rotate-mobile
Cronaca

Il carcere dei boss, detenuti eccellenti dietro le sbarre di Sabbione

La “polpetta avvelenata” di Provenzano e la paternità di Cutolo. Ma anche i capi di camorra e ‘ndrangheta. Così il numero uno della sacra corona unita ha tentato di evadere

È l’11 aprile del 2006 quando un elicottero partito da Palermo atterra all’aviosuperficie di Terni. L’area è circondata da pattuglie e uomini in borghese. Scende Bernardo Provenzano, 73 anni, arrestato il giorno prima dalla sezione catturandi della squadra mobile del capoluogo isolano. Sale sul furgone della polizia penitenziaria. Direzione: la casa circondariale di vocabolo Sabbione. Il carcere dei “boss”.

Con la morte di Giacomo Zeno scende a 26 il numero dei detenuti in regime di 41 bis, il carcere duro, ospitati nella casa circondariale ternana. Dietro a quelle sbarre negli anni si sono alternati ospiti “eccellenti”: mafia, camorra, ‘ndrangheta. E storie inconfessabili, depistaggi, tentativi di fuga.

I “capelli d’angelo”

“Speriamo che Natale ce lo facciamo insieme, me ne voglio venire, non a Mesagne, in campagna a Fasano”. Sono alcune delle intercettazioni ambientali grazie alle quali lo scorso maggio è stato bloccato il tentativo di fuga di Antonio Campana, ritenuto a capo della nuova Sacra Corona Unita assieme a Raffaele Martena, che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Terni. Avrebbe progettato un’evasione e pensava a una villetta sulle colline della Selva per nascondersi. La fuga doveva essere messa in atto con la complicità dello zio Igino che per il nipote aveva acquistato su internet i “capelli d’angelo”, fili diamantati per tagliare le sbarre, che avrebbe nascosto nel pane da portare al detenuto in occasione del colloquio. Le intenzioni di Campana, 39 anni, sono state scoperte dagli agenti della Mobile di Brindisi in collaborazione con la polizia penitenziaria di Terni.

La “polpetta avvelenata”

“Bravi, complimenti e arrivederci”. Sono le ultime parole di Bernardo Provenzano, il capo dei capi di Cosa nostra, prima di lasciare la sua terra, Corleone, la Sicilia, mentre sale sull’elicottero della polizia di Stato che lo attende nell’ex aeroporto militare palermitano di Boccadifalco per trasferirlo, dopo 43 anni di latitanza, nel carcere di Terni. Ad accoglierlo una cella di poco meno di 20 metri quadrati, sorvegliata a vista e con telecamere 24 ore su 24. L’arrivo di Provenzano scatena un putiferio nel carcere. O almeno, così si legge sui giornali nelle ore immediatamente successive al suo arrivo. Binnu ‘u tratturi sarebbe infatti stato accolto da un altro boss di cosa nostra, Giovanni Riina, figlio del successore di Provenzano. E il benvenuto non sarebbe stato dei migliori: “Questo sbirro qui l’avete portato?”.

In realtà, si scoprirà nelle settimane successive, queste parole Riina jr non le avrebbe mai pronunciate. In primo luogo perché nessuno sapeva dell’arrivo in carcere di Provenzano, trasferito nella sua cella attraverso un percorso “invisibile” agli altri detenuti, e poi perché la cella del giovane mafioso si trovava su un altro piano rispetto a quello di Provenzano, che a Terni prese il posto di un altro boss mafioso, Giuseppe Graviano, trasferito in fretta e furia al penitenziario di Spoleto. Le indagini faranno emergere che la notizia dell’accoglienza amara sarebbe stata fatta circolare per favorire il trasferimento di Provenzano in un penitenziario meno duro rispetto a quello di Terni. Così come ad arte circolò la voce della “torta di compleanno”. “Per ragioni di sicurezza - ricostruirà Francesco Dell’Aira, dal 1996 al 2016 direttore di Sabbione - Provenzano mangiava i pasti della mensa degli agenti. E quel giorno, 31 gennaio del 2007 - data del 74esimo compleanno del boss - il vitto prevedeva una crostatina del Mulino Bianco. Che Provenzano neanche mangiò perché diabetico”.

Tatuaggio fatale

All’inizio del novembre del 2015 dietro le sbarre di Sabbione è finito un altro boss. Stavolta della camorra. Si tratta di Pasquale Sibillo. Latitante a Terni e ospite presso una zia e una cugina, è stato pedinato dagli agenti della mobile e fotografato in varie occasioni, anche dal barbiere. Sibillo era in auto con un familiare, seduto al posto del passeggero. La vettura è stata fermata e all’agente che lo ha identificato ha fornito un nome e documenti risultati falsi. A quel punto il poliziotto gli ha leggermente alzato il maglioncino con la scusa di verificare se avesse qualcosa indosso. Una volta individuato il tatuaggio - raffigurante delle carte da gioco - il boss è stato bloccato.

L’ex terrorista nero

In carcere a Sabbione c’è anche l’ex terrorista di estrema destra dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) Gilberto Cavallini, 64 anni, che sta scontando la condanna all’ergastolo – pur godendo del regime di semilibertà che gli consente di uscire tutti i giorni per recarsi al lavoro - perché ritenuto autore di numerosi omicidi, tra cui quello del giudice Mario Amato, sostituto procuratore a Roma, assassinato il 23 giugno 1980. Cavallini è finito di nuovo sotto inchiesta per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, in cui persero la vita 85 persone, fra cui anche il ternano Sergio Secci. Per Cavallini, la Procura di Bologna ha ipotizzato l’accusa di concorso poiché avrebbe fornito i covi per la latitanza in Veneto ai responsabili materiali della strage e perché avrebbe partecipato alla preparazione della strage stessa. Per quei fatti sono stati condannati all’ergastolo Francesca Mambro, Valerio Fioravanti mentre Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne, fu condannato a 30 anni di reclusione.

Padrini e padroni

Fra i detenuti eccellenti figurava anche Giovanni Tegano. Ritenuto boss dei boss della ‘ndrangheta, condivise la detenzione al carcere duro con un altro nome di primissimo piano della criminalità italiana, Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata. Tegano, arrestato ad aprile del 2010 dopo 17 anni di latitanza, rappresentava gli interessi delle più potenti cosche reggine, con i quali don Raffaele aveva ottimi rapporti. Una amicizia, quella tra i due padrini, che affondava le radici agli anni Settanta quando don Raffaele - su richiesta della cosca De Stefano - fece uccidere in carcere don Mico Tripodi. Uno scambio di favori tra mafiosi, così come ha raccontato il pentito della camorra Carmine Alfieri.

Papà dietro le sbarre

Forse la storia più singolare è quella di Raffaele Cutolo, condannato a 4 ergastoli da scontare dal 1995 in regime di 41 bis. Il boss della Nco ha trascorso gran parte della sua vita in carcere, proprio come Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Crescienzo, esponente della vecchia camorra ottocentesca. È stato ospitato da diverse carceri italiane: nel 2000 viene trasferito nel carcere di Novara e dal 2007 al 2011 è stato detenuto nel carcere di massima sicurezza di Terni, nella cella che fu di Bernardo Provenzano. E proprio durante la permanenza nel carcere di Terni, don Raffaele è diventato padre. IL 30 ottobre del 2007 è nata infatti Denise, figlia del boss campano e di Immacolata Iacone, 22 anni più giovane del marito. Si sono conosciuti in carcere, nella sala colloqui di Ascoli Piceno, nel 1982. “Lo sentii dire che chi fa del male a un bambino va subito ucciso - ricorda la Iacone – D’istinto gli feci: ma che dice, scusi? Mia madre mi sgridò. Lui era Cutolo. Non dovevo permettermi di rivolgermi così a quell'uomo. Raffaele si fermò, mi guardò. Era incuriosito. Pochi mesi e ci siamo fidanzati. L’ho baciato una sola volta in vent’anni, il giorno del matrimonio in carcere (all’Asinara, ndr). Lui me lo disse: se ti sposi con me è come essere vedova. Poi mi ha regalato una figlia, e sono felice”. L’autorizzazione per la fecondazione assistita Cutolo e signora l’hanno ottenuta dal ministero di Giustizia nel 2001. Dopo otto anni di istanze. Lo aveva rivelato lo stesso fondatore della Nuova camorra organizzata, il 24 febbraio 2006, in un’intervista a Repubblica. “Morirò in prigione, il mio ultimo desiderio è regalare un figlio a mia moglie”, disse.

Si parla di

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Il carcere dei boss, detenuti eccellenti dietro le sbarre di Sabbione

TerniToday è in caricamento