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Aborto, la legge “dimenticata”: diritti e rovesci di un testo che non è mai stato applicato

In Umbria si torna a parlare di interruzione volontaria di gravidanza. Ma il testo della 194 parla anzitutto di “tutela sociale della maternità”. Ecco perché tutti dovrebbero fare qualcosa di più

La legge sull’aborto parla anche d’altro. Anzi, parla soprattutto di altro. Il testo della 194, in vigore dal 6 giugno del 1978 dopo una ferocissima battaglia sociale e politica che dilaniò il Paese, fa infatti riferimento a “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

“Lo Stato – dice l’articolo 1 del testo normativo in questione - garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.

Normare l’interruzione volontaria di gravidanza e dunque intercettare quella che era la prima necessità in quegli anni, portò subito ad un effetto dirompente. Nel 1978, secondo le statistiche del ministero della salute, gli aborti in Italia erano poco più di 68.500. Dodici mesi dopo, quella cifra schizzò a quota 187.700. Evidente che il ricorso alla pratica era frequentissimo e rischiava di trasformarsi in una strage perché, piuttosto che in una sala operatoria, le donne venivano martoriate in scantinati e garage, senza alcuna prevenzione igienica e senza nessuna garanzia sanitaria.

Oggi, quarantadue anni dopo, quell’emergenza dovrebbe dirsi superata. E non essendoci più l’urgenza sanitaria, forse sarebbe il caso di riflettere sul complesso della legge che va molto oltre la sola questione della interruzione volontaria di gravidanza. Esperienza dolorosa, che segna e che dunque merita un rispetto altissimo e una delicatezza profondissima.

Però. Nel secondo articolo si parla del ruolo dei consultori famigliari. Che “assistono la donna in stato di gravidanza informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio, informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante, attuando direttamente o proponendo all’ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi” a cui si faceva riferimento poco sopra e – molto importante – “contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Tanto è vero che “i consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.

In questi giorni l’Umbria è attraversata da un acceso dibattito dopo che la giunta regionale ha riformato una delibera del 2018 con cui si concedeva la possibilità di utilizzare la cosiddetta pillola abortiva a domicilio. Sotto accusa è finita l’esecutivo di centrodestra, accusato di avere assunto posizioni “conservatrici” retrograde e che rimettono indietro l’orologio dei diritti delle donne.

C’è chi spara e chi incassa. Ma forse, nessuno coglie nel segno. In Umbria, mediamente, ogni anno si effettuano un migliaio di interventi chirurgici per l’interruzione volontaria di gravidanza. Nella casistica non vengono citate le donne che utilizzano la pillola Ru486. E nella casistica non trova alcuno spazio una indagine sulle cause che hanno indotto all’aborto. Contravvenendo, dunque, a quel pezzo di legge che dice al contrario di voler “contribuire a far superare” proprio queste cause.

Nel corso degli anni si è spesso parlato di “superare” o “riformare” la legge 194. Applicarla in tutti i suoi passaggi sarebbe già un ottimo risultato. Guardando ai dati, si scopre ad esempio che nel 2018 a Terni sugli oltre 300 aborti (chirurgici) praticati, 67 si sono concentrati nella fascia d’età 35-39 anni. E 61 in quella 20-24. Numeri simili si ritrovano a Perugia e nel resto d’Italia. Perché? Forse perché nella fascia più giovane, e che dunque si affaccia al mondo del lavoro, una gravidanza potrebbe rappresentare un ostacolo? Lo stesso ostacolo che si potrebbe presentare per donne più “mature”, che però rischiano lo stesso di perdere il posto? C’è un problema di povertà?

Chiudere tutto sinteticamente dentro la questione della “gravidanza indesiderata” può essere riduttivo. E nuocere in sé al complesso dei diritti che ogni donna, e ogni essere umano, deve vedere garantiti. Investigare sulle cause, capire, leggere le dinamiche sociali che portano ad una scelta drammatica è un dovere delle istituzioni. Fermarsi a inutili parapiglia ideologici è un passatempo sterile. E sicuramente non basta un escamotage normativo o sanitario per risolvere questioni che hanno bisogno di strumenti molto più efficaci e approfonditi. Altrimenti, il rischio – che si somma a tutti gli altri – è che ad essere abortito sarà lo spirito stesso della legge.

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