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Missionario in fabbrica, in parrocchia, in Africa e in piazza: le quattro vite di don Fernando Benigni

Il ricordo del sacerdote morto lo scorso 2 dicembre a 78 anni: è stato uno dei più grandi protagonisti della storia della città e della chiesa di Terni

Non ci mancherà, don Fernando Benigni, morto il 2 dicembre a 78 anni in un ospedale di Roma.

Non ci mancherà, perché ci mancava già, tanto e da tanto. Uno dei più grandi protagonisti della storia della città e della chiesa di Terni, se ne è andato solo, in silenzio, lontano, in un confinamento che aveva anticipato di due anni il nostro.

Destino amaro e singolare, per un uomo così clamoroso, così amante della piazza e della gente, morire isolato da tutto e da tutti, senza più alcun contatto non solo con il suo popolo, ma nemmeno con gli amici più cari.

Perché è morto in una casa di riposo, il prete che era stato missionario in acciaieria, in parrocchia, in Africa, nella piazza principale della città. È stato ucciso dal Covid e dalla solitudine, l’uomo che ha affrontato gli operai anticlericali e i miliziani del Congo. Ed è stato l’epilogo non di una, ma di almeno quattro vite. Quattro volte la sua vita lo ha infatti visto in prima linea e in primo piano sul palco della città, facendone uno dei preti più importanti della storia della diocesi di Terni.

La prima vita era stata quella di cappellano delle acciaierie in un momento caldo come gli anni ’70: la stagione dei preti operai, delle grandi lotte sindacali e del terrorismo, dei referendum su divorzio e aborto e delle contrapposizioni sociali e ideologiche. È stato in quel periodo che don Fernando ha maturato la sua vocazione di prete del popolo, capace di scendere dall’altare e stare in mezzo alla gente. Ma è stato anche l’incarico che lo ha visto protagonista del momento più importante della storia della chiesa ternana: la visita a Terni di Giovanni Paolo II che aveva accompagnato per tutta la giornata insieme al vescovo Santo Quadri. E per tutta la vita, don Fernando ha conservato gelosamente il casco bianco indossato da Wojtyla durante la visita in fabbrica, mostrandolo anche a papa Francesco, durante l’ultima udienza diocesana.

Subito dopo era diventato parroco di San Salvatore: e anche qui aveva lasciato il segno, fondando il Rifugio Sole per tossicodipendenti in collaborazione con la neonata Comunità Incontro di don Pierino Gelmini ad Amelia.

Quando ho iniziato a frequentare la parrocchia, a quattordici anni, don Fernando era già una leggenda vivente. Presente in tutti i discorsi, i ricordi dei parrocchiani, negli ingombranti paragoni con il suo successore. Se ne era appena andato per partire missionario in Zaire. L’esperienza che più lo ha segnato, sotto tutti i punti di vista.

Le sue Lettere dall’Africa sono ancora oggi uno dei libri più letti in città, il rapporto con la missione di ‘Ntambwe da lui avviato fondamentale.

L’Africa aveva cambiato completamente il modo di vedere la vita di don Fernando: al suo ritorno l’aveva portata con sé, non solo nell’impegno missionario, i racconti, gli oggetti di cui si circondava, ma anche nel modo di vestire e di predicare, con quelle messe infinite che si sapeva quando cominciavano ma mai quando si chiudevano, visto che di prediche ne improvvisava almeno tre.

Ma quell’esperienza ne aveva minato anche il fisico e la mente: la malaria, diagnosticata male e tardi, e il sequestro, subìto durante la rivoluzione che aveva abbattuto il regime di Mobutu trasformando il paese nella Repubblica democratica del Congo.

Per una notte intera era stato costretto a fare da guida ai miliziani, consegnando tutto quello poteva essere depredato, sempre con una pistola puntata contro e sapendo che altri preti erano stati già uccisi.

“Se ho avuto paura? – raccontava – Me la sono fatta sotto!”.

Tornato a Terni, nel 1994, era stato direttore del Centro Missionario, poi parroco: infine gli era stata affidata la chiesetta di San Giovannino, in pieno centro. Un ruolo decisamente marginale, da pensionato, per un prete già molto malato.

A sorpresa, don Fernando aveva fatto di San Giovannino il centro spirituale del centro storico: qualcosa che non si era mai vista prima in nessuna parrocchia, e che non si è più vista da quando se ne è andato. Una chiesa aperta giorno e notte, che accoglieva tutti, ma proprio tutti: atei e devoti, beghine e balordi, artisti, matti e giornalisti, cristiani, musulmani e induisti, passanti e immigrati, avvocati e disperati.

Senza guardare né alla razza, né alla nazionalità, né alla fedina penale, don Fernando accoglieva: non solo in chiesa, ma anche in casa. Molti, ovviamente, se ne approfittavano, ma lui non ci badava, perché nel Vangelo c’è scritto “dà a chiunque ti chiede”. E basta.

La chiesa era ricca, colorata e disordinata come la mente del suo rettore: gigantografie di bambini africani e quadretti devozionali, opere di arte sacra contemporanea e statue africane, cartelloni con scritte a pennarello, giornali e collage con foto di ragazzi morti.

A San Giovannino si poteva pregare sempre, spesso con il Santissimo esposto e il rosario registrato che usciva dalle casse di un altoparlante. Era l’unica chiesa aperta fino a mezzanotte e ci andavano a pregare – tra gli altri – cuochi e camerieri quando uscivano dal lavoro. Se poi volevi confessarti, don Fernando lo trovavi sempre: o in chiesa, magari sonnacchioso, o in sacrestia, o in casa, o più spesso in piazza, a chiacchierare con la gente.

Io, personalmente, ne approfittavo: è stato il mio confessore per una quindicina di anni. Aveva una certa tendenza – specie negli ultimi tempi – a parlare più lui del penitente, e non di rado si lasciava andare al gossip raccontandoti i fatti di tutti, ma senza mai fare nomi, ovviamente. Un paio di volte non mi ha dato l’assoluzione, e mi ha cacciato dalla chiesa urlando. In entrambi i casi credo che avesse ragione lui.

Non aveva filtri né freni inibitori. Diceva sempre quello che pensava, ma forse non pensava sempre a quello che diceva. Per questo diventava spesso inopportuno, soprattutto in occasioni pubbliche. Al festival Popoli e Religioni era uno dei pochi preti fedelissimi: non perdeva un evento e amava intervenire, a volte mettendoci in imbarazzo. Quando veniva a Terni Roberto Benigni, poi, saltava sul palco e scherzava millantando di essere un suo parente. Più matto del diavoletto toscano, era ribelle e contestatore e prendeva sempre posizione su tutto, possibilmente in contrasto con i vescovi.

“Don Fernando – ha sintetizzato padre Giuseppe Piemontese al funerale - è stato un cristiano che ha gridato la sua fede e il suo amore per Gesù. Tutti potevano sentirlo, anche quelli che non volevano”.

Se la sua prima morte fu il sequestro la seconda fu, probabilmente, quando gli tolsero il suo piccolo regno di San Giovannino, per trasferirlo in una parrocchia di periferia. Infine, poco tempo dopo, quello che ha vissuto come un doloroso esilio, in un ospizio per sacerdoti vicino Roma, che per il super-missionario ha rappresentato la morte civile e sociale. Anche se l’ultima volta che l’ho visto mi ha sorpreso dicendomi che si trovava, in realtà, piuttosto bene.

È stato un paio di anni fa, in occasione di uno dei suoi rari ritorni a Terni. Mi aspettavo di trovarlo depresso e spaesato, invece lo trovai allegro. Era il don Fernando di sempre: gli portai un libro, chiacchierammo un po’, mi chiese dei miei genitori e dei nostri amici comuni. E poi se ne andò tutto contento a mangiare una pizza con don Luciano. Da allora non l’ho più visto. E un altro confessore lo sto ancora cercando.

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