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Domenica, 1 Ottobre 2023
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Da Ranuccio Tomassoni a Stefano de Majo passando per Franco Molè: Caravaggio parla ternano

Il pittore è stato protagonista della puntata di Freedom su Italia 1. E a vestire i panni di Merisi è stato il giovane attore ternano

È stato Stefano de Majo a dare volto, corpo e voce a Michelangelo Merisi detto Caravaggio in Freedom – oltre il confine, trasmesso il 2 gennaio in prima serata su Italia 1. In uno dei servizi del programma, il conduttore Roberto Giacobbo si è messo sulle tracce di Caravaggio a Malta, dove il pittore si rifugiò nel 1606 per sfuggire alla condanna a morte.

Nel corso della puntata, alla quale è intervenuto anche Vittorio Sgarbi, a vestire i panni di Merisi è stato l’attore e regista ternano, completando – in qualche modo – un ciclo che lega il “Maestro della luce” alla città di Terni.

Ternano era infatti Ranuccio Tomassoni, l’uomo che Caravaggio uccise durante una partita di tennis, mentre il più importante attore teatrale ternano – Franco Molé – ha dedicato il suo capolavoro proprio al pittore lombardo.

Quanto a Tomassoni, la cosa più importante che ha fatto nella sua vita – bisogna ammetterlo - è stata morire. Però l’ha fatto grandiosamente, con una morte che ha cambiato per sempre la storia dell’arte. Ricco, influente e ben introdotto negli ambienti che contano, Ranuccio era nato a Terni intorno al 1580, figlio di un eroico alto ufficiale dello Stato Pontificio, mentre come fratelli si era ritrovato tre soggettoni fuori delle righe: violenti, prepotenti e sempre pronti a menare le mani.

Come Francesco Angeloni e Angelo Rapaccioli, Ranuccio è uno dei giovani rampolli della nobiltà ternana trapiantata a Roma, è sposato con Lavinia Giugoli e come acerrimo nemico ha Michelangelo Merisi.

Protetto dal potente cardinale Francesco Maria Del Monte, Caravaggio con la sua pittura rivoluzionaria è diventato famosissimo nei salotti della nobiltà romana e un mito vivente per un’intera generazione di pittori. Ma è anche un artista scandaloso: i carmelitani scalzi, ad esempio, hanno rifiutato il dipinto Morte della Vergine perché la donna è ritratta con il ventre gonfio, quindi morta di parto e tutt’altro che vergine.

Il 28 maggio 1606 Michelangelo e Ranuccio si accordano per giocare nel pomeriggio una partita di pallacorda, l’attuale tennis, a Campo Marzio.

Più che un incontro sportivo, la partita si presenta subito come il pretesto per una rissa, perché i due sono vecchi nemici, per molti motivi: economici, ovvero debiti non pagati, ma soprattutto sentimentali. Entrambi sono infatti amanti di una prostituta, la senese Filide Melandroni, che Caravaggio ha anche ritratto, sei anni prima, in uno dei suoi capolavori: Giuditta che taglia la testa a Oloferne, ispirato a sua volta alla storia della parricidia Beatrice Cenci, che era stata appena giustiziata a Castel Sant’Angelo di fronte agli occhi inorriditi dello stesso Caravaggio. Filide ha avuto una breve ma intensissima storia d’amore con Michelangelo, poi è stata costretta a prostituirsi e ha accettato la protezione di Ranuccio.

Ma non è finita: come se non bastassero donne e soldi, Michelangelo e Ranuccio sono divisi anche dalla politica. Caravaggio è infatti un protetto dell’ambasciata di Francia, mentre Tomassoni è filo-spagnolo. Ciliegina sulla torta: secondo alcune voci Caravaggio avrebbe sedotto e messo incinta Lavinia, moglie di Ranuccio.

La pallacorda viene scelta dai due nemici solo perché i duelli sono banditi dalle leggi di papa Sisto. Il campo è all’aperto mentre il pubblico può seguire la partita – non un singolare ma un confronto quattro contro quattro – da tribunette coperte. A far degenerare la situazione, già molto tesa, è un fallo, commesso da Ranuccio ai danni di Michelangelo, con uno spintone mirato a fargli mancare la palla. Merisi reagisce e le spade prendono subito il posto delle racchette: Tomassoni si avventa contro Merisi e lo ferisce, poi – indietreggiando - inciampa e Michalangelo, riesce a sbatterlo a terra e lo trafigge all’inguine. La sua intenzione è quella di evirarlo, ma affonda troppo la lama recidendo involontariamente e malauguratamente l’arteria femorale di Ranuccio, che muore dissanguato in pochi minuti.

Il sanguinoso scontro suscita una grandissima eco a Roma, anche per l’influenza di cui i Tomassoni godono in Vaticano.

Il processo si svolge in contumacia e il verdetto è severissimo: Caravaggio viene condannato alla decapitazione, che può essere eseguita da chiunque lo riconoscesse per strada. Una vera e propria “fatwa” che insegue il pittore per il resto della sua vita.

Per Michalengelo inizia una fuga rocambolesca. Grazie alla protezione dei Colonna, il pittore riesce a lasciare la Capitale e a rifugiarsi prima in Ciociaria, poi a Malta, dove nel 1608 diventa Cavaliere: un privilegio che può garantirgli l’immunità, se solo riuscisse a tenersi lontano dai guai. Ma, ovviamente, non ci riesce: viene alle mani con un altro cavaliere e finisce di nuovo in carcere, riuscendo ad evadere in modo rocambolesco, e fuggendo prima in Sicilia e poi a Napoli. Viene espulso dai Cavalieri di Malta come “membro fetido e putrido” e – mesi dopo – raggiunto da alcuni emissari dell’Ordine, che lo aggrediscono e gli sfigurano il volto.

Perseguitato dalla legge, ma anche dalla paura e dal rimorso, Caravaggio diventa ossessionato dalla decapitazione. Sogna in continuazione la sua morte, e la dipinge in continuazione. Nelle sue ultime opere non fanno che comparire personaggi con la testa mozzata, dove il suo macabro autoritratto prenderà spesso il posto del volto del morto. L’esempio più clamoroso e impressionante è Davide con la testa di Golia, dipinto nel 1610, pochi mesi prima di morire a Porto Empedocle il 18 luglio, a 39 anni di età, in circostanze poco chiare. Si parlerà di un colpo di sole o di una febbre maligna e i suoi resti verranno identificati solo nel 2010.

Il rapporto con la città di San Valentino non si esaurisce però con la morte. Tre secoli dopo, nel 1978, debutterà al teatro L’Aquila di Fermo Caravaggio di Franco Molé, interpretato – tra gli altri - da Martine Brochard, Tommaso Onofri ed Enrica Bonaccorti – che l’attore, regista e drammaturgo ternano continuerà ad allestire per il resto della sua vita.

Molè, fratello di Nicola (avvocato, esponente di spicco del mondo cattolico ternano e primo presidente eletto dal popolo della Provincia di Terni) e di Maria (responsabile del Seminario filosofico dell’Istess) è nato nel 1939 ed è divenuto uno dei principali esponenti del nuovo teatro della scuola romana insieme a Carmelo Bene, Leo Bernardinis e Giancarlo Sepe, ha fondato la compagnia Alla Ringhiera ed è uno dei promotori del collettivo teatrale Beat ‘72.

Collabora attivamente a diverse riviste teatrali e al cinema dirige i film Prima della lunga notte – L’ebreo fascista nel 1980 (interpretato da Ray Lovelock, Martine Brochard, Enrica Bonaccorti e Mario Valdemarin) e La stanza delle parole nel 1990 e interpreta Notturno con grida nel 1983. Tra gli altri lavori teatrali Evaristo (1967), Charles del Divino Amore (1972), Con i più sentiti ringraziamenti (1972, scritta dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco), Touluse Lautrec, una giornata alle Folies (1980).

Morto nel 2006, nel 2013 darà il suo nome al Premio assegnato – tra gli altri – a Giovanni Pampiglione, anche lui ternano e padre del teatro italiano in Polonia, scomparso pochi mesi fa.

Per Stefano de Majo, che ha all’attivo testi da lui scritti e interpretati su un’enorme quantità di personaggi, dalla cagnetta Laika a Francesco d’Assisi, da Rino Gaetano a Canova passando per san Valentino, Furio Miselli e Roberto Antiochia, Caravaggio è ormai una vecchia conoscenza: da anni porta infatti in giro per l’Italia il suo Caravaggio, riflesso di un genio in cui mette a confronto il pittore milanese con Pier Paolo Pasolini ed Ettore Petrolini.

“Con Pasolini, Caravaggio ha molto in comune: non solo la vita violenta e la morte tragica, ma anche l’interesse verso gli ultimi, la capacità di trasformare la gente presa dalla strada in opera d’arte. Entrambi, poi, sono uomini del nord che hanno sposato Roma e qui hanno creato i loro capolavori. Per Petrolini, invece, è il contrario: è un romano che è stato apprezzato anche alla Comédie Francaise, mantenendo quella stessa trasgressione che caratterizza Caravaggio”.

De Majo, che ha diretto e interpretato un intero cartellone di spettacoli natalizi, chiuderà il 5 gennaio il programma di appuntamenti di Natale dell’Istess con La fiaba della befana, ultimo atto dei suoi “Racconti del ciocco”, che andrà in scena alle 18.30 nella Basilica di San Valentino, accompagnato dalla flautista e musicoterapeuta Emanuela Boccacani.

“Quest’anno abbiamo voluto portare gli spettacoli di Natale nelle periferie. La fiaba della Befana racconta, in chiave immaginifica, le origini e le vicende della vecchietta dedita a portare i regali ai bambini, con riferimento ai tre Magi ma anche al Poverello d’Assisi. Il racconto farà riscoprire a grandi e bambini il valore assoluto del dono, ancor più importante per chi lo fa che per chi lo riceve”.

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