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Venerdì, 19 Aprile 2024
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“È stato il più grande regista italiano, Alessandro D’Alatri, anche se nessun critico lo ammetterà mai”

Il ricordo di Arnaldo Casali: “Ci siamo conosciuti nel 2005 quando venne a Terni per presentare Casomai. il suo ultimo messaggio è stato: ti abbraccio forte. E questo abbraccio me lo tengo stretto, così come la lettera che ci scrisse il giorno delle nozze”

“Il cinema italiano conosce solo quattro categorie: giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro e incolmabile vuoto”.

Alessandro D’Alatri raccontava così il suo rapporto con la critica il giorno in cui l’ho conosciuto. Era il 2005 e sul palco del cinema Fedora di Terni era affiancato da Fabio Volo – che aveva lanciato con Casomai – e da Mario Sesti, uno dei pochi critici con cui aveva un buon rapporto.

Quella sera mi rilasciò la prima di una serie di interviste strepitose, che hanno segnato un’amicizia durata quasi vent’anni e che si è spostata in giro per l’Italia (dall’Aquila – in cui è stato direttore del Teatro Stabile a Ventotene, dove ha girato Sul mare) ma anche in Polonia, dove ha incantato la platea del festival Sacrofilm di Zamosc, gemellato con Popoli e Religioni. E ovviamente Roma. Nel 2010, invitato da lui, sono entrato per la prima volta nei locali dell’Università Lateranense, per l’inaugurazione della mostra “I preti al cinema” organizzata da Dario Edoardo Viganò (era stato proprio lui a metterci in contatto, due anni prima). Quel giorno, fuori dall’università, firmando per il referendum sull’acqua pubblica mi regalarono un braccialetto celeste che ancora indosso al polso.

Dieci anni dopo, quando sono andato a lavorare proprio all’interno di quell’università e mi sono trasferito a Trastevere, mi ha fatto conoscere una delle pizzerie più rinomate del rione, dal soprannome che suona piuttosto sinistro: “Ti porto a cena all’Obitorio” mi disse.

A Terni è venuto dieci volte in quindici anni, per il Terni Film Festival e per San Valentino. Di “Popoli e Religioni” è stato l’ispiratore e il padrino, accompagnandolo lungo tutta la sua crescita. È stato anche l’artista più premiato, con quattro Angeli di Dominioni e il Premio San Valentino per il Cinema.

“Bisognerebbe istituire il ‘casellario degli onesti’ perché ormai in Italia essere persone per bene è una pregiudiziale”, disse nel 2021, intervenendo – ancora in piena pandemia – alla sessione primaverile del Terni Film Festival: quella che segnò il ritorno in sala dopo un anno.

Dopo il folgorante esordio sul palco del Politeama nel 2008 con l’Angelo alla carriera e la proiezione di I giardini dell’Eden, era tornato pochi mesi dopo per presentare Casomai il giorno di San Valentino. L’anno successivo aveva portato Sul mare (film che ha segnato anche il suo debutto su facebook) ricevendo il premio del pubblico. Ancora l’anno dopo – ancora per San Valentino – presentò lo spettacolo teatrale Scene da un matrimonio con Daniele Pecci e Federica Di Martino, mentre nel 2012 venne prima per San Valentino (con Senza pelle) e poi al Terni Film Festival per presentare il libro Tra cielo e terra. Cinema, artisti e religione al quale aveva collaborato.

Quell’anno, per la cena inaugurale, portò anche il vino che produceva lui stesso e che aveva chiamato Regista.

Nel 2014 fu di nuovo al festival con il documentario Dio in TV e nel 2015 celebrò i vent’anni degli spot Lavazza ambientati in Paradiso presentandone una selezione al cinema Politeama.

Nel 2017 arrivò con tutto il cast di The Start Up e nel 2018 ottenne l’Angelo per la miglior regia e quello per il film dell’anno con In punta di piedi.

L’ultima presenza a Terni risale al febbraio 2022, quando ricevette il Premio San Valentino per il Cinema per i vent’anni di Casomai e la fiction Un professore.

“Viviamo in un paese in cui la cosa più pericolosa è essere bravi ed essere felici” disse. E non era un’iperbole, era vero. Perché se c’è una colpa che ha pagato tutta la vita, è stata proprio quella di essere bravo. Con l’aggravante di avere le spalle dritte, un forte rigore morale e una brutale schiettezza.

È stato il più grande regista italiano, Alessandro D’Alatri, anche se nessun critico lo ammetterà mai, per il semplice motivo che non era amico dei critici.

Era estraneo a tutte le congreghe, ai circoli chiusi che gestiscono il mondo dello spettacolo, tutti bene inquadrati, allineati, complici.

Non ha mai fatto un film brutto, eppure non ho mai sentito parlare bene di lui da un critico; in compenso tutti quelli che ci hanno lavorato – sceneggiatori, attori, scenografi, tecnici – ne erano innamorati.

È stato un maestro vero e un modello sotto tutti i profili: per il rigore morale, l’impegno civico, la generosità, il senso cristiano, la passione che metteva in tutto quello che faceva, che fosse il film della vita o uno spot pubblicitario.

Il suo talento era superato forse solo dalla sua statura morale. Un uomo rigoroso, generoso, radicale nel rifiuto di ogni compromesso.

“Immagino di essere prossimo a diventare un venerato maestro”, mi ha detto qualche tempo fa. Invece ha saltato il passaggio, diventando direttamente un “incolmabile vuoto”, almeno a giudicare i commenti di colleghi che, ad essere sinceri, fino a ieri non avevano mai ostentato tutta questa devozione.

“Ho cercato di mantenere il massimo riserbo – mi aveva scritto a gennaio, raccontandomi il difficile percorso che aveva intrapreso che gli aveva impedito anche di venire al mio matrimonio – perché nel nostro ambiente mezza parola diventa sta morendo”.

Abbiamo continuato a sentirci fino agli auguri di compleanno (siamo nati a un giorno di distanza, il 23 e il 24 febbraio, a vent’anni esatti di distanza 1955 e 1975).

Poi, dalla fine di marzo, ha smesso di rispondermi. Ma il suo ultimo messaggio è stato: “Ti abbraccio forte”. E questo abbraccio me lo tengo stretto, così come la lettera che ci scrisse il giorno delle nozze: “Quel viaggio nella comprensione della felicità nella società del profitto che ho fatto con Casomai – scriveva – è ahimè ancora valido e nulla è stato fatto per migliorare le condizioni delle famiglie italiane. Sta ancora solo a noi impegnarci concretamente facendo sacrifici e credendo ancora a quel battito di cuore che i romantici continuano a chiamare amore, che non è altro che sposare fino in fondo quei valori radicati e trasmessi dalle nostre famiglie. Allora è questo l’augurio più sincero che vi porgo: credeteci, credeteci fino all’inverosimile”.

*direttore dell’Istess

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