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Alessandro D'Alatri, talento senza etichette

Il ricordo del direttore dell’Istess a un mese dalla morte del grande regista: “Trasformava in oro tutto quello che toccava. Ma ha pagato la sua coerenza e la sua indipendenza con un ostracismo durato per tutta la sua carriera”

Se vuoi dare scandalo puoi dire che Alessandro D’Alatri è stato il più grande regista italiano. Quando l’ho detto, intervenendo al funerale, è risuonato un fragoroso applauso nel teatro India. Poi, però, un giornalista (l’unico presente) ha scritto che avevo esagerato, che la mia era solo “un’iperbole”. Un critico, invece, nel rendergli omaggio, ha detto che “non era un grande regista”. Come ha subito precisato, quell’affermazione non voleva sminuirlo, ma al contrario, essere un attestato di stima, intendendo dire che non aveva manie di grandezza, ma che era sobrio e umile, pronto a dare tutto sé stesso anche in prodotti considerati minori come la pubblicità, la fiction e il teatro. Perché sì, il teatro è più spocchioso per gli attori e anche per gli spettatori, ma a teatro il regista è l’ultima ruota del carro. E infatti i registi teatrali sono pochissimi e di solito un'opera teatrale viene diretta dall’autore o da uno degli attori. 

Quando però vedevi uno spettacolo diretto da D'Alatri te ne accorgevi subito, e non certo perché si inventasse robe strane (come fanno spessissimo i registi “carismatici”); perché lui non aveva bisogno di segnare il terreno per giustificare la sua presenza. Faceva, semplicemente, ogni volta un capolavoro. Come Steven Spielberg e tutti i più grandi registi della storia del cinema, D'Alatri era capace di spaziare dai generi più disparati senza imporre una poetica inconfondibile. I suoi film non li riconoscevi per lo stile, ma per la bellezza. Lui non aveva bisogno di lasciare la sua firma, perché la sua impronta era la qualità. Quindi Alessandro D'Alatri non solo era un grande regista ma era il più grande regista italiano, anche se nessun critico lo ha mai detto né lo dirà mai, visto che Alessandro D'Alatri è stato anche il più sottovalutato regista italiano, il più snobbato, diciamo anche il più massacrato, e solo perché non apparteneva ad alcuna conventicola ma era un uomo libero e schietto.

Io li ho conosciuti tutti, i più importanti critici italiani, e ogni volta che ne incontravo uno tiravo fuori il nome di D'Alatri per vedere la reazione. Nessuno ha mai avuto il coraggio di dire che non è bravo. Semplicemente, storcevano il naso, dicevano che aveva un brutto carattere. Insomma, non era amico loro. Quindi andava stroncato. Stroncato o ignorato. Va detto che almeno in questa tragica circostanza non abbiamo visto ipocrisia: pochissimi di loro hanno speso qualche riga per la sua morte, alcuni si sono limitati a darne notizia, altri ancora l’hanno deliberatamente ignorata. Questo è l’unico motivo per cui D’Alatri non può essere considerato il più grande regista italiano. Perché la critica italiana ha deciso così. E se maestri venerati dalla stessa – come Nanni Moretti e Marco Bellocchio – possono permettersi di girare capolavori ambiziosi, personali e costosissimi, D’Alatri ha pagato la sua coerenza e la sua indipendenza con un ostracisimo durato per tutta la sua carriera che l’ha visto infine totalmente esiliato dal grande schermo. 

È stato anche la persona più anticonformista che io abbia mai conosciuto, e che ha pagato cara la scelta di non allinearsi, di rifiutare ogni etichetta che gli veniva affibbiata: quella di comunista così come quella di cattolico. Ho imparato tantissimo da lui: anche a non firmare le petizioni. Perché la testimonianza si dà con i fatti e con la propria vita, non aggiungendo il proprio nome ad una prova di forza. Il mondo del cinema, però, questo non glielo ha mai perdonato. Non gli ha perdonato di non aver lavorato gratis per il Partito, di non aver aderito ai girotondi, di aver cambiato il mondo con il suo lavoro e non con le prese di posizione. Ma in un mondo in cui non conta chi sei e ciò che fai ma da che parte stai, Alessandro D'Alatri non poteva che essere un nemico da combattere. 

“Non posso dire alle mie figlie di non fumare, e poi fumare io per primo” mi ripeteva sempre. E non a caso ogni volta che ci incontravamo aveva appena smesso di fumare. “Non posso fare Casomai e poi tradire mia moglie. Quale testimonianza darei?” mi disse nel 2010 mentre eravamo in viaggio verso Zamosc, in Polonia. Alessandro D’Alatri pensava a quello che diceva e diceva quello che pensava. Il mondo del cinema lo considerava una persona scostante per gli stessi motivi per cui considera “stronze” e “algide” le attrici che non la danno. Una volta mi raccontò di quando fu contattato dal segretario del Partito (non ricordo se a quei tempi si chiamasse Pci, Pds, Ds o Pd) che gli chiese di realizzare uno spot pubblicitario per la campagna elettorale. “Volentieri” gli rispose. E poi disse il prezzo. “Ma come? Devi farlo gratis, tu sei di sinistra!”. “Voi per me siete un prodotto, come il caffè” gli rispose lui. 

Perché Alessandro era una persona estremamente amichevole e generosa, ma sul lavoro era rigoroso e inflessibile. Io non sono mai riuscito a vederlo al lavoro perché non mi ha mai invitato sul set. E l’unica volta che, cedendo alle insitenze di una mia amica attrice, gli ho segnalato che aveva fatto il provino per una sua fiction, non mi ha nemmeno risposto. In compenso, in quella stessa fiction poi ho ritrovato un’altra mia carissima amica che si era guardata bene dal dirgli che mi conosceva.  Quando è stato fondato a Terni il Festival Popoli e Religioni i suoi film sono i primi che avrei voluto proiettare. Ma non avrei immaginato che Alessandro sarebbe diventato un vero e proprio padrino per il nostro festival. E’ stato tra i primi e pochi artisti a dare fiducia a quel piccolo e giovane progetto: è venuto a Terni 12 volte in 15 anni, quasi sempre in macchina, da solo, senza chiedere neppure il rimborso della benzina. E ha passato ore a dialogare con il pubblico sui suoi film, ed è praticamente l’unico regista a non aver mai chiesto di incontrare l’allora celebre Vescovo (con fama di figura potente e influente) della Diocesi. Il mio sogno era averlo come direttore artistico, ma non gliel’ho mai chiesto perché sapevo che non era un collezionista di titoli e di incarichi: se faceva qualcosa la faceva seriamente, impegnandosi fino in fondo. Non avrebbe avuto il tempo di farlo, e non avrebbe mai accettato di limitarsi a firmarlo. Quando, le condizioni fisiche lo hanno costretto a rinunciare a qualsiasi altro lavoro, ho pensato di chiederglielo sul serio. Volevo andarlo a trovare, per parlargliene, ma non ho fatto in tempo. 

Un’altra mia affermazione controversa, criticata – al funerale – anche da Anna Pavignano (che con lui ha scritto Casomai, Sul mare e altri copioni mai usciti) è che Alessandro fosse un regista “puro” e non un sceneggiatore. In questo caso è sembrato ad alcuni che fossi io a volerlo sminuire. In realtà è esattamente il contrario. Sappiamo che in Italia il mestiere del regista non è molto riconosciuto: la regia cinematografica, più che un’arte, è percepita come una direzione generale. Di conseguenza quella del regista – sopratutto al cinema – è vista più come una posizione di potere che un ruolo professionale. Se ci fate caso in Italia chiunque può fare un film da regista: per gli attori ormai è diventato quasi un obbligo, poi abbiamo scrittori, critici, cantanti, persino politici. I comici non ne parliamo: da Carlo Verdone a Roberto Benigni, da Aldo, Giovanni e Giacomo a Piero Chiambretti sono diventati tutti registi. Solo Checco Zalone, almeno fino a un certo punto, ha avuto il buon senso di farsi dirigere da un professionista (Gennaro Nunziante, storico collaboratore dello stesso Alessandro D’Alatri). Ma chi studia davvero regia in Italia? La maggior parte dei registi italiani arriva dalla recitazione o dalla sceneggiatura. Attori o autori che a un certo punto decidono che vogliono avere il pieno controllo del loro film. 

Registi veri, che fanno quello di mestiere, perché quello sanno fare meglio di ogni altro e meglio di chiunque altro, in Italia sono pochissimi. D’Alatri era uno di questi. Perché pur essendo entrato nel mondo dello spettacolo da bambino come attore, ha fatto poi una lunghissima gavetta dietro la macchina da presa in pubblicità e poi oltre dieci anni da regista pubblicitario prima di approdare al cinema, dirigendo un film progettato e scritto da altri. Certo che D’Alatri è stato anche un autore e di che tinta. Ma proprio perché, come Steven Spielberg insegna, un grande regista non ha bisogno di usare la penna per essere autore. Spielberg, per inciso, in tutta la sua carriera ha scritto solo due film (Incontri ravvicinati e The Fablemans), eppure non c’è una sua sola opera che non sia profondamente personale.

Delle 13 opere filmiche che ha diretto, Alessandro D’Alatri ne ha scritte solo 7, di cui 5 insieme ad altri sceneggiatori, 5 da un suo soggetto originale e solo una (Senza pelle) da solo. Ma proprio per questo non aveva bisogno di fare l’autore per creare capolavori. Perché tutto ciò che toccava diventava oro. Anche per questo non poteva che generare invidie e gelosie. Ma più cercavano di emarginarlo e più la sua bravura emergeva. Così è diventato in pochissimo tempo “giovane promessa” a “solito stronzo”. Una volta gli ho detto “quando diventerai un venerato maestro?”. Invece è approdato direttamente a “incolmabile vuoto”. Per me è stato un punto di riferimento imprescindibile sotto il profilo umano, civico, artistico e anche spirituale, anche se ci ha tenuto spesso - anche nelle nostre conversazioni private - a prendere le distanze dalla Chiesa. Non a caso il regista più innamorato del Vangelo ha avuto un funerale laico, libero da ogni etichetta. 

D'altra parte - come detto - le etichette lui le rifiutava tutte e non temeva di apparire contraddittorio, proprio perché è solo a un mondo contraddittorio che appare contradditorio l'uomo coerente. Alessandro D’Alatri era un uomo libero, in tutti i significati che questa parola può assumere. Il regista che ha girato il film usato in tutte le parrocchie per i corsi prematrimoniali si è sposato a Las Vegas, l’uomo che più di ogni altro ha portato il Vangelo al cinema ha avuto funerali laici. Una “non-cerimonia” al teatro India che ha visto la sala gremita per quasi tre ore. Anche se, a dirla tutta, se pensiamo alle centinaia di attori con cui ha lavorato in oltre quarant’anni di carriera e a quelli che ha lanciato, sono relativamente pochi quelli che si sono fatti vedere e sentire.

Sui media è stato ignorato da alcuni degli artisti che gli devono di più, e salutato con affetto da chi non ti saresti aspettato, come Fiorello e Laura Pausini (per la quale ha girato un videoclip); Fabio Volo gli ha dedicato qualche parola in radio, Alessandro Gassman un celebre tweet. Tra i colleghi i più affettuosi sono stati Francesco Bruni e Daniele Luchetti, mentre al Teatro India c’era Renato De Maria. I più commossi, per l’ultimo applauso, era Lino Guanciale, che si è fermato a lungo, e Alessandro Haber (che in realtà ci ha fatto solo un videoclip di Renato Zero) in prima fila durante la commemorazione. Gli unici a prendere la parola sono stati Antonio Milo (che con lui ha fatto Riccardi ma anche a teatro Mettici la mano) e Massimo Ghini, l’amico di sempre: insieme hanno girato tre film e fatto a teatro Quando la moglie è in vacanza. Margherita Buy è arrivata alla fine, a carro funebre già partito, tutta trafelata che sembrava dentro un film. Guglielmo Poggi, star in ascesa del nuovo cinema italiano, appariva distrutto. Con lui ha girato The Start-Up ma è forse l’unico suo vero erede come regista: un talento immenso che finora si è però espresso solo in cortometraggi. C’erano giovani attori che hanno raccontato di averlo conosciuto proprio al Terni Film Festival, come Maria Laura Moraci, e poi tanti addetti ai lavori, amici, membri della sua famiglia allargata e bellissima, e anche comuni spettatori, arrivati al funerale senza averlo mai visto di persona ma la cui vita è stata cambiata dai suoi film. Come è stato con me. Quanto avevo ventidue anni gli scrissi una lettera dopo aver visto I giardini dell’Eden. Un’altra la scrissi dopo aver visto Casomai. Con La febbre ho avuto l’opportunità di incontrarlo per la prima volta di persona, per una lunghissima intervista. Poi, dopo Commediasexi l’ho avuto ospite a Terni, e dopo Sul mare ho avuto il privilegio di avercelo addirittura come amico. Ho ritrovato nel mio archivio anche alcune sceneggiature inedite, che mi aveva mandato per chiedermi un parere, e che non sono mai state girate. E poi la lettera che mi scrisse – a settembre – per il mio matrimonio, al quale non poté intervenire a causa della malattia. E infine la nostra ultima conversazione su Dio e sulla morte in un momento per me di grande crisi spirituale, in cui avevo particolarmente bisogno di confrontarmi con lui. Qualche notte fa ho ritrovato dei versi che scrisse anni fa, su facebook, fa sotto una mia poesia: si chiama Sul sasso che rotola non cresce il muschio ed era ispirata a Like a Rolling Stone di Bob Dylan.

Si chiude con queste parole:

Dimmi come ci si sente?

Quando non hai più niente

senza un lavoro, un amico, un’amante

completamente estraneo

di tutto spogliato, da tutto distante

povero e libero

come una pietra rotolante

E lui ha aggiunto: 

Ci si potrebbe sentire benestante

Poiché dalle materie ormai distante

Ricco di molte sensazioni

Sguardi, profumi, sentimenti,

riempiono la vita di emozioni.

                                                                                                                                                                 *direttore Istess

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