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Cronaca Amelia

Dov’è Barbara? “Ha fatto la fine di quell’altra. E tu smettila di fare domande”

Un buco di un’ora e mezza e un corpo mai ritrovato: ecco gli interrogativi dell’inchiesta sulla giovane mamma scomparsa da Amelia nel 2009, che ha portato all’arresto del marito della donna. Le analogie con la morte di Angela Cosentino

Gli uomini di ‘ndrangheta parlano poco. “Lo fanno soprattutto con la gestualità, lo fanno con gli occhi”. Il procuratore della Repubblica di Terni, Alberto Liguori, ha fatto più volte riferimento alla “mentalità mafiosa” che ha fatto da cornice alla vicenda di Barbara Corvi, la giovane mamma scomparsa da Amelia il 27 ottobre del 2009, il cui corpo non è mai stato ritrovato, e per cui è ora indagato il marito, Roberto Lo Giudice, assieme a suo fratello, Maurizio, accusati di omicidio premeditato, in concorso, oltre che di occultamento o soppressione di cadavere.

Archiviata nel maggio del 2015, la vicenda è stata riaperta proprio da Liguori che, in collaborazione con la polizia giudiziaria della procura e il nucleo investigativo dell’arma dei carabinieri di Terni, ha messo in atto un “attento scrutinio degli atti istruttori raccolti in precedenza e riletti anche alla luce sia dell’attività tecnica investigativa condotta, sia del contributo offerto da collaboratori di giustizia qualificati” andando così a comporre un “compendio istruttorio” che “si è colorato di gravità indiziaria convergente verso la persona dell’attuale indagato”, dice il procuratore.

Tre i “pentiti” di ‘ndrangheta che hanno contribuito a stringere il cerchio attorno a Lo Giudice. Fornendo dettagli, circostanze, informazioni, nomi, date. Elementi vagliati a lungo dalla magistratura, soprattutto con l’obiettivo di verificare che non si trattasse di accuse costruite ad arte per mettere nei guai un rivale in quella che, dentro ai clan mafiosi, è una guerra sempre aperta per il controllo degli affari criminali.

I vecchi atti, “valorizzati” dalla nuova inchiesta, hanno collimato con i racconti forniti da testimoni e collaboratori di giustizia, contribuendo a “smontare” le bugie e i depistaggi che invece – sostengono gli inquirenti – avrebbero caratterizzato il racconto fornito da Roberto Lo Giudice.

Se la ricostruzione – indiziaria - fino ad ora messa in piedi dalla procura ternana contribuisce insomma a gettare una luce sulla storia di Barbara, alcuni frammenti della vicenda restano però ancora avvolti nel buio.

C’è infatti un “buco” di oltre un’ora e mezza in quel pomeriggio dell’ottobre 2009, durante il quale potrebbe essersi consumato l’omicidio, proprio nella casa a Montecampano di proprietà della famiglia Lo Giudice dalla quale i testimoni hanno sempre detto di non avere visto nessuno allontanarsi. L’ultima volta che Barbara viene vista dai familiari è intorno alle 16. Di Roberto si ha traccia una ventina di minuti prima della 18. Mentre la donna scomparirà.

Dove? A questa domanda risponde un pentito, intercettato durante le investigazioni. Parlando con un altro interlocutore, dice che “Barbara ha fatto la fine di quell’altra” e poi ammonisce: “E tu smettila di fare domande”.

Quell’altra è Angela Costantino, 25enne (e madre di quattro figli), moglie di un altro dei fratelli Lo Giudice, Pietro, la cui fine risale al 1993. Il procuratore Liguori ha spiegato che leggendo le carte di quella sentenza sono state evidenziate numerose e possibili analogie con il caso Corvi. Per la morte della giovane donna sono stati condannati a 30 anni di carcere Bruno Stilo e Fortunato Pennestri.

Scrivono i giudici del tribunale di Reggio Calabria nella sentenza di secondo grado che “il delitto è stato realizzato in attuazione di un programma saldo e predeterminato, avente ad oggetto la punizione della donna fedifraga, che aveva leso l’onorabilità del marito, mentre questi era detenuto, il quale rispetto alla sua onorabilità, era stato tenuto all’oscuro di tutto. La donna non sono aveva tradito il marito, ma vi erano allarmanti segnali, quali metrorragia e frequenti svenimenti, indicativi che la donna portasse in grembo una creatura che non era del marito. Onta questa ancora più grave e che necessitava di essere occultata, grazie al ricorso ad un primario amico, che avrebbe potuto ammorbidire le risultanze della cartella clinica. A tutto ciò andavano aggiunte quelle misure repressive adottate dalla famiglia Lo Giudice: accompagnamento a vista, percosse per reprimere i moti di ribellione, psicofarmaci per sedare le continue crisi di pianto e per creare un alone di malattia psichiatrica”.

“Vi è stata - è scritto nelle motivazioni della sentenza d’Appello - la maturazione del progetto criminoso, gelosamente custodito per non intaccare la serenità di Pietro Lo Giudice e l’ideazione dello stato depressivo per gettare sulla misteriosa scomparsa l’ombra del suicidio”.

Anche la magistratura ternana parla di “progetto criminoso” che sarebbe stato costruito nel tempo da Roberto Lo Giudice e che si fonderebbe su due moventi: la gelosia per la relazione extraconiugale di Barbara all’epoca dei fatti – ma nello stesso periodo anche Lo Giudice aveva un’amante – e i soldi, con il marito impegnato a svuotare i conti correnti di famiglia, dicono gli inquirenti, e nel tentativo di far credere che quei beni sarebbero serviti a Barbara per garantirsi la fuga.

Altro elemento combaciante, i pentiti. Tre, pure nel caso Costantino, i collaboratori di giustizia che mettono gli inquirenti sulla strada della verità. E tra questi compare anche Maurizio Lo Giudice, oggi indagato, che nel 1999, quando decise di “pentirsi”, raccontò agli inquirenti della scomparsa della cognata, parlando, fin da subito, di una possibile eliminazione.

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