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Cronaca

“Troppi stranieri dietro le sbarre, costa meno rimandarli a casa. I boss in cella? Non sono un pericolo per Terni”

Da detenuto a consulente legale, intervista a Claudio Cipollini Macrì: “Per un detenuto non c’è possibilità di reinserimento una volta fuori. Abbiamo persone che aspettano il braccialetto elettronico da 40 giorni perché lo Stato non paga”

Il mondo dietro le sbarre. Ma anche il mondo da dietro le sbarre. Da detenuto a consulente tecnico, quella di Claudio Cipollini Macrì, classe 77, è sicuramente una prospettiva diversa con la quale affrontare il complicato tema della situazione carceraria. La nostra intervista.

Dottor Cipollini, ci può raccontare la strada che da ex detenuto l’ha portata da quest’altra parte della sbarre a battersi oggi per i diritti dei carcerati?

claudio cipollini macrì-2“Ero detenuto a Roma, quando per seguire le mie vicende processuali iniziai a leggere il codice di procedura penale, appassionandomi a tal punto da chiedere al parroco di poter conseguire il dottorato. Così ho intrapreso il percorso di studi, grazie anche all’avvocato Giacomo Marini che all’epoca era il mio legale e che mi ha sostenuto anche nell’acquisto dei libri di testo. Mi accorgevo che potevo essere utile agli altri, ottenendo anche dei risultati. Ho conseguito il dottorato nel 2013, presi la lode sulla carta dei diritti e dei doveri del detenuto. Così ho aperto la Legal consulting: si tratta di uno studio associato di avvocati, io ne sono il presidente e sono un consulente tecnico e revisore processuale. Lavoro sulle carte, analizzando tutti i documenti processuali. Nello statuto della società è prevista anche l’associazione Detenuti liberi, una realtà no profit, a scopo di reinserimento sociale. Sono anche garante autonomo dei detenuti”.

La situazione penitenziaria in Italia è prossima al collasso, soprattutto per quanto riguarda il sovraffollamento. Nel carcere di Terni ad esempio ci sono 92 detenuti in più rispetto alla capienza massima. Ma non è soltanto un problema strutturale.

“Il sovraffollamento sussiste perché non c’è possibilità di reintegrazione per un detenuto una volta fuori dal carcere. Si tratta di un fenomeno dettato anche dalla popolazione detenuta straniera: il 36 per cento dei detenuti sono stranieri e il 12 per cento hanno già un decreto di espulsione. Ogni detenuto costa 186 euro al giorno. Un volo low cost per eseguire quel decreto costerebbe molto di meno ed avremmo in parte risolto il problema”.

A questo proposito, a che punto siamo con le misure alternative?

“L’ordinamento penitenziario prevede che i condannati sotto i sei anni vengano affidati alle comunità. Oggi, per carenza di fondi, ad esempio le comunità non accolgono detenuti tossicodipendenti. L’articolo 47 ter prevede l’affidamento ai servizi sociali tramite la Uepe, Ufficio esecuzioni penali esterne. Ma questo non avviene per carenze di personale. A Terni ad esempio ci sono soltanto due educatori per tutta la popolazione carceraria. Sotto ai due anni è prevista la detenzione domiciliare. Fino ai 18 mesi di detenzione, con il decreto legge del ministro Bonafede (legge 18 del marzo 2020) è possibile utilizzare il braccialetto elettronico. Noi abbiamo assistiti che sono in attesa da oltre 40 giorni del braccialetto elettronico perché Fastweb, che ha la concessione dallo Stato, non riceve i soldi e quindi non produce i braccialetti”.

Possiamo fare qualche esempio di detenuti che si trovano in carcere ma che, al contrario, secondo la legge potrebbero trascorrere altrove la loro pena?

“Abbiamo il caso di una giovane madre di tre figli condannata a sette per traffico di stupefacenti, detenuta Terni. Doveva tornare in carcere il 20 giugno, ma assieme all’avvocato Marini, con un differimento pena, abbiamo ottenuto che la donna resti a casa con i figli in affidamento alla Uepe di Terni. È una ragazza socialmente reintegrata”.

C’è un altro tema che assume contorni importanti ed è quello del tasso di recidiva. Quanti ex detenuti escono ed entrano dal carcere perché non hanno alternative rispetto al crimine?

“Attualmente viene applicata una recidiva generica. Significa che se io sono stato condannato per spaccio ma oggi commetto un furto, nei miei confronti viene comunque applicata la recidiva. La percentuale è alta, può arrivare anche al 70 per cento, ma il problema resta sempre la mancanza di assistenza all’esterno. Lo scopo del nostro gruppo è di trovare un lavoro agli ex detenuti. Nel carcere di Genova c’erano dei detenuti in articolo 21 (sottoposti in regime di detenzione con la possibilità di uscire per lavoro, ndr): una mia proposta fu di mettere dei detenuti capaci in semilibertà per lavorare alla ricostruzione del ponte. Ma la proposta venne bocciata. A Roma venne accettata: ci sono ragazzi che hanno rifatto strisce pedonali o tagliato alberi. Ora percepiscono stipendi e non hanno più commesso reati. Anche a Terni ci sono lavori che i detenuti potrebbero svolgere come la manutenzione delle strade o la cura dei parchi: sarebbe un bel progetto a scopo sociale”.

Bastano le attività interne al carcere per garantire un futuro dignitoso fuori dalla detenzione?

“Possono bastare per far passare il tempo all’interno del carcere. Una volta fuori, se non si viene reinseriti per il percorso lavorativo e rieducativo che è stato fatto, è tutto inutile. I vari gruppi che si occupano della condizione dei detenuti, invece di essere in contrasto tra loro, dovrebbero mettersi assieme per trovare soluzioni utili ai carcerati”.

Quelle detentive sono comunque condizioni difficili, che spesso sfociano in comportamenti aggressivi o autolesionistici da parte dei carcerati. È successo anche nei Terni nei mesi scorsi: è soltanto uno “sfogo” o dietro a questi eventi c’è dell’altro?

“Non ho mai avuto nulla contro la polizia penitenziaria: hanno una situazione invivibile. Un agente che deve gestire cento detenuti non è semplice (a Terni sono in servizio 208 detenuti rispetto ai 241 previsti). Il nervosismo viene da entrambe le parti. Queste ultime rivolte sono state dettate da uno stato psicologico avverso: non sanno se sono contagiati, non possono vedere i famigliari. Viene violato il più sacrosanto diritto che è quello di avere rapporti coi famigliari, con il mondo esterno. Basta una parola detta male e la miccia esplode. Il detenuto avrebbe il diritto di scontare in maniera dignitosa la sua pena: non ha senso rivoltarsi contro le istituzioni se non per l’assenza di un diritto”.

Nella casa circondariale di vocabolo Sabbione sono ristrette 26 persone sottoposte al carcere “duro”. Lei ritiene che questa presenza possa in qualche modo favorire una “contaminazione” della città rispetto ad infiltrazioni del crimine organizzato?

“Il carcere duro è incostituzionale perché è una condanna a morte ‘bianca’. È come una pena di morte: sarebbe stato meglio per loro la sedia elettrica, in tre minuti sarebbe finito tutto. Sono sorvegliati h24, non hanno nulla. La persona sottoposta in regime di 41 bis è sicuramente influente, ma per la società è pericoloso il piccolo criminale, non il grande criminale. Sono pericolosi nel loro territorio non in uno in cui si trovano per condizioni contingenti. Un boss della camorra di Napoli non potrà mai comandare a Terni”.

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