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Mercoledì, 6 Dicembre 2023
Economia

Lavorare a Terni non conviene: stipendi più bassi che in mezza Italia, i dati

Le retribuzioni lorde per i dipendenti privati sul territorio provinciale sono inferiori di oltre duemila euro rispetto alla media nazionale: si guadagna di più in circa cinquanta province. E Perugia sta messa anche peggio

Magari è una conclusione affrettata. Però, mettendo vicini un paio di numeri, i contorni della fotografia appaiono meno sbiaditi. Eccoli. Secondo le rilevazioni dell’Istituto nazionale di statistica, dalle anagrafi dei comuni della provincia di Terni nel corso del 2021 (ultimi dati disponibili) si sono cancellati 4.921 residenti. Circa 4.200 (più o meno, metà maschi e metà femmine) sono emigrati in altre città d’Italia, mentre 640 persone (sempre metà e metà) si sono trasferiti all’estero.

In questi giorni, l’ufficio studi della Cgia di Mestre, associazione di artigiani e piccole imprese, ha elaborato un dossier che mette a confronto la retribuzione media lorda dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato. E dal dossier emerge che a Terni – e nel territorio ternano – i dipendenti privati guadagnano oltre duemila euro in meno rispetto a quella che è la media nazionale, piazzandosi al cinquantesimo posto in Italia per importo delle retribuzioni. Spuntandola, comunque, in questa guerra fra “poveri” con Perugia, che si trova ancora un po’ più in basso in classifica.

Stando ai dati raccolti dalla Cgia di Mestre, la provincia di Terni è caratterizzata da una retribuzione media lorda pari a 19.368 euro l’anno, ossia 2.230 euro in meno rispetto alla media nazionale (-10,2%). Come detto, Perugia fa ancora peggio visto che i 19.352 euro lordi l’anno di retribuzione media (-2.516 euro rispetto alla media nazionale, pari a -11,5%) valgono al capoluogo di regione il 54esimo posto in Italia.

Dall’analisi provinciale delle retribuzioni medie lorde pagate ai lavoratori dipendenti del settore privato emerge che, nel 2021, Milano è stata la realtà con gli stipendi più elevati: 31.202 euro. Seguono Parma con 25.912 euro, Bologna con 25.797 euro, Modena con 25.722 euro e Reggio Emilia con 25.566 euro. In tutte queste realtà emiliane, la forte concentrazione di settori ad alta produttività e a elevato valore aggiunto - come la produzione di auto di lusso, la meccanica, l’automotive, la meccatronica, il biomedicale e l’agroalimentare – ha “garantito” alle maestranze di questi territori buste paga molto pesanti. I lavoratori dipendenti più “poveri”, invece, si trovavano a Nuoro dove percepivano una retribuzione media lorda annua pari a 13.338 euro, a Cosenza con 13.141 euro e a Trapani con 13.137 euro. I più “sfortunati”, infine, lavoravano a Vibo Valentia dove in un anno di lavoro hanno portato a casa solo 11.823 euro.

“Gli aspetti emersi dal dossier – commentano dall’ufficio studi della Cgia - ripropongono una vecchia questione: gli squilibri retributivi presenti tra le diverse aree del Paese come, ad esempio, tra nord e sud, ma anche tra le aree urbane e quelle rurali. Questione che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro. L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie che - tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media - sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del nord. Le tipologie di aziende appena richiamate, infatti, dispongono di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.) con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante. Infine, non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare è diffuso soprattutto nel Mezzogiorno e da sempre questa piaga sociale ed economica provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori (agricoltura, servizi alla persona, commercio, etc.), ubicati nelle aree interessate da questo fenomeno”.

“Tuttavia – prosegue l’analisi - se invece di comparare il dato medio tra aree geografiche diverse, lo facciamo tra lavoratori dello stesso settore, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura più contenute di quelle presenti in altri Paesi europei. Per contro, la scarsa diffusione in Italia della contrattazione decentrata - istituto, ad esempio, molto diffuso in Germania - non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendoci scontare anche dei gap retributivi medi con gli altri Paesi molto importanti. Come ha avuto modo di segnalare anche il Cnel, il problema dei lavoratori poveri non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano un numero di giornate molto contenuto. Pertanto, più che a istituire un minimo salariale per legge, andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto”.

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