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Economia

Il virus ha “ucciso” il lavoro. Le vittime? Giovani, donne e precari: ecco il 2020, l’anno più difficile

La Relazione economico-sociale realizzata da Agenzia Umbria Ricerche: “Tra i 25-34enni si sono perse 5mila unità, per ogni 10 occupati in meno, 8 sono giovani di questa età”

Pubblichiamo uno stralcio della Relazione economico-sociale 2021 realizzata da Agenzia Umbria Ricerche. Sono diversi gli aspetti analizzati in questo importante ed approfondito lavoro. Quelle di seguito sono alcune parti che riguardano, in modo particolare, l’impatto che la pandemia ha avuto sul mondo del lavoro e sui livelli occupazionali in Umbria.

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Il 2020 è stato segnato, in Italia e anche in Umbria, da un forte calo dell’occupazione dipendente a tempo determinato e del lavoro part time – non sufficientemente bilanciati dal lieve aumento di dipendenti a tempo indeterminato – e da una drastica contrazione della componente giovanile.

Dunque a pagare le conseguenze sono state principalmente le categorie più vulnerabili: giovani, contratti a termine e di apprendistato, livelli di istruzione più bassi, le attività non essenziali. In Umbria, l’emorragia del lavoro femminile è stata estremamente selettiva: molto forte tra le giovani, più di quanto occorso tra i coetanei regionali e le coetanee nazionali, ha risparmiato invece le donne più mature.

La diminuzione di occupati under 35 in Umbria ha superato quella degli occupati totali. Tra i 25-34enni si sono perse 5mila unità, un po’ più donne che uomini, per un tasso di caduta praticamente doppio rispetto a quello nazionale: per ogni 10 occupati in meno, in Umbria 8 sono giovani di questa età (meno di 4 in Italia).

Prosegue in questo modo l’invecchiamento del mercato del lavoro che, al 2020, propone un’Umbria più sbilanciata dell’Italia verso le generazioni più anziane anche in termini di partecipazione alla produzione per il mercato. L’emorragia occupazionale ha toccato molto meno o per niente quei comparti che alla fine si sono rivelati più protetti, come la manifattura, e ha sgorgato invece abbondantemente dai settori più vulnerabili.

La maggiore sofferenza rispetto al contesto nazionale nel terziario si è concretizzata nel settore commercio, alberghi e ristoranti in una perdita per la regione di oltre 5mila occupati, per più di tre quarti donne con meno di 35 anni, e negli altri servizi in un calo di oltre 3.300 unità, in questo caso esclusivamente uomini con posizione professionale dipendente. Al contrario, l’industria in senso stretto, più protetta grazie non solo al blocco dei licenziamenti, ma anche alle minori restrizioni, al tipo di contratti prevalenti e forse anche a una maggiore tutela sindacale, ha registrato un aumento di quasi 3mila occupati.

L’anno 2020 si è caratterizzato anche per la diminuzione dei disoccupati e l’aumento degli inattivi, molto probabilmente per un travaso da uno status all’altro: in un anno condizionato da un diffuso clima di sospensione anche dal punto di vista delle azioni di ricerca attiva di un lavoro e contrassegnato dallo scoraggiamento, crescono notevolmente le persone in età lavorativa che, pur dichiarandosi in cerca di un’occupazione, non lo hanno cercato attivamente (e per questo non definibili disoccupate).

Diminuiscono i disoccupati (-5,5% rispetto all’anno precedente, con un tasso di caduta molto più contenuto di quello nazionale, con il maggior contributo della componente femminile), aumentano gli inattivi (+26,6% a fronte del 12% italiano). Ad ogni modo, il tasso di disoccupazione giovanile cresce, arrivando a toccare il 32% per le donne con meno di 25 anni. Dal 2019 al 2020 l’Umbria ha dunque perso quasi 6.500 occupati, con un tasso di caduta (-1,8%) che ha penalizzato di più la componente maschile (-1,9% contro -1,7%) ma che ha lasciato inalterato il tasso di femminilizzazione dell’occupazione (42%). In Italia, il calo è stato un po’ più elevato (-2,0%) e ha colpito più pesantemente le donne (-2,5% contro -1,5%).

Seguendo il trend nazionale (-1,8% a fronte di -1,7%), la regione ha perso 5mila lavoratori dipendenti, con una decurtazione più accentuata per gli uomini. Sul fronte del lavoro autonomo, diminuito anch’esso ma meno che in Italia (-1,7% contro -2,9%), la perdita è stata di oltre 1.500 occupati, praticamente tutte donne, a fronte di un ampliamento della compagine maschile.

La scure della crisi si è abbattuta in maniera selettiva sul lavoro subordinato, colpendo esclusivamente i contratti a termine e in Umbria con più forza che in Italia (-17,6% e -12,8% rispettivamente): così, nel 2020, 8.800 dipendenti con contratti a termine, svincolati dal blocco dei licenziamenti e per natura suscettibili di mancati rinnovi, hanno perso lavoro. Le donne sono state più penalizzate (-18,1% contro -17,2% maschile) ma la perdita di circa 4.200 dipendenti assunte con contratti temporanei è stata in parte bilanciata da un aumento di oltre 3mila tempi indeterminati, riducendo a circa un migliaio la contrazione di unità femminili subordinate (-0,8%). Il tasso di caduta tra gli uomini (-2,8%) è stato invece l’esito di 4.500 contratti a termine in meno, parzialmente compensati da neanche 700 contratti a tempo indeterminato in più rispetto all’anno precedente.

Dunque, il lavoro a tempo indeterminato è aumentato, in Umbria più che in Italia (+1,7 e +0,6% rispettivamente), nella regione molto più per le donne che per gli uomini (le 3.800 unità in più sono quasi del tutto al femminile), con tassi di crescita femminili superiori a quelli italiani (+2,8% contro 0,3% nazionale).

Il 2020 è stato anche un anno segnato dalla diminuzione del part time (-5% in Umbria, -4,6% in Italia), altra forma contrattuale particolarmente esposta a subire tagli in casi di difficoltà del mercato, con ritmi più sostenuti di quelli verificatasi nei tempi pieni (-0,9% e -1,3%). In valore assoluto, l’Umbria ha perso 3.700 contratti part time e oltre 2.700 a tempo pieno.

Nel complesso, l’emorragia occupazionale maschile ha interessato i tempi pieni (-2%, a fronte del -1,3% nazionale) mentre è rimasto praticamente inalterato il numero dei part time (+0,1% in Umbria, -3,7% in Italia) che, ridottisi tra i lavoratori autonomi, sono stati recuperati sul versante del lavoro subordinato. Insomma, per gli uomini, la fuoriuscita di occupati dipendenti a tempo pieno è stata in parte tamponata dall’attivazione di contratti part time.

Per le donne, al contrario, la perdita occupazionale di contratti part time è stata parzialmente attutita da un aumento di contratti a tempo pieno. Un fenomeno che risulta accentuato sul fronte del lavoro alle dipendenze: 2 mila e 700 donne con contratto part time in meno e 1 e 600 posizioni a tempo pieno in più. Un dato del tutto anomalo rispetto a un fenomeno di appannaggio tipicamente femminile (il part time nei rapporti di lavoro alle dipendenze pesa tra gli uomini del 9,7% e del 35,6% tra le donne) e in controtendenza rispetto alla contrazione dello 0,5% su base nazionale.

Sul fronte del lavoro autonomo, la fuoriuscita di posizioni maschili part time (-30%, a fronte del -3,5% nazionale) è stata recuperata con un aumento dei tempi pieni, in controtendenza rispetto a quanto occorso in Italia. Il lavoro autonomo femminile scende tra i profili full time (-2,7% a fronte di -4,8% nazionale) e ancor di più tra i part time (-14,8%, contro -4,8%).

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