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Perugia, chiede denaro a un imprenditore per "insabbiare" un'indagine inesistente: condannato finanziere

La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Perugia: avrebbe chiesto 30mila euro prospettando il suo aiuto per bloccate un'inchiesta

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a carico di un appartenente alla Guardia di finanza per il reato di concussione, avendo chiesto denaro a un imprenditore per “ammorbidire” i controlli, rigettando il ricorso dell’imputato.

Il finanziere, difeso dall’avvocato Francesco Maria Falcinelli, ha presentato ricorso contro la decisione della Corte d’appello che ha riformato la sentenza emessa il 16 giugno 2020 dal Tribunale di Perugia, "limitatamente al trattamento sanzionatorio, confermando l'affermazione di responsabilità per il reato di peculato e la condanna generica al risarcimento dei danni e revocata la provvisionale disposta dal primo giudice".

L'imputato è stato ritenuto colpevole del tentativo di concussione “commesso, abusando della qualità di ispettore della Guardia di Finanza, in servizio presso il Nucleo PT della Guardia di Finanza di Perugia, nel corso di una verifica fiscale a carico della ..., che aveva incorporato la ..., per costringere ... a versargli la somma di 30mila euro, poi ridotta a 25mila euro, quale compenso per un suo intervento presso persone molto importanti al fine di sistemare il tutto e scongiurare le possibili gravi conseguenze connesse ad un'indagine della DIA di Roma”, rivelatasi poi inesistente.

Tentativo di concussione non andato a buon fine “per la resistenza del ..., intimorito e persino minacciato di tenere il silenzio altrimenti gli avrebbe sparato con la pistola”.

Le indagini si erano basate sulle dichiarazioni della persona offesa, “ritenuta attendibile e non animata da intento calunnioso, come provato dalla circostanza che non aveva sporto denuncia nonché dalle imprecisioni del narrato, ritenute segno di genuinità” e sui riscontri relativi “agli incontri narrati dalla vittima, alle telefonate effettuate dall'imputato da cabine pubbliche con carta prepagata, risultata a lui riconducibile”.

Per i giudici di Cassazione il ricorso è inammissibile “perché proposto per motivi generici, in quanto reiterativi di censure già dedotte in appello, disattese con argomentazioni lineari e logiche, nonché per motivi non consentiti, in quanto diretti a fornire una lettura alternativa dei fatti e delle prove, valutate, invece, in modo coerente e corretto dai giudici di merito”.

Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 3mila in favore della cassa delle ammende.

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