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“Pedoni investiti e uccisi, una strage silenziosa di cui a nessuno importa nulla”

Una riflessione dopo la morte delle due donne a Terni: “È venuto il momento di parlare di pezofobia”

La morte delle due donne investite a Terni da un automobilista mentre attraversavano le strisce pedonali, arriva a dieci giorni da quella del più grande linguista italiano – Luca Serianni – ammazzato ad Ostia nello stesso modo.

Nessuno dei tre casi, in realtà, finirà nelle statistiche degli incidenti mortali, perché tutte e tre le vittime sono morte in ospedale, dopo giorni di agonia, e non sul colpo. E nessuno dei tre verrà classificato come omicidio stradale, perché in entrambi i casi l’autista non era ubriaco o sotto l’effetto di droghe, ma semplicemente “distratto”.

Non troverete nemmeno cori di indignazione, dichiarazioni di politici e di influencer, articoli sui giornali e meme virali, come è stato per la trans suicida Cloe o per Greta Baccaglia, la giornalista palpleggiata in diretta televisiva, o per l’attivista gay insultato in metropolitana.

Perché la morte di un pedone non fa opinione, non crea indignazione, non suscita emozione e non si presta a strumentalizzazioni politiche o ideologiche.

In compenso le statistiche - quelle che considerano i morti sul colpo - ci dicono che nel solo 2021 (un anno di parziale lockdown, con mobilità ridotta) sono morti 271 pedoni in Italia e 270mila nel mondo, con una media di 22 al mese: un morto ogni 32 ore. E solo uno su cinque è stato ucciso da un pirata della strada.

Insomma, per un pedone morire sulle strisce è una cosa normale; un rischio che devi calcolare ogni volta che decidi di avventurarti a piedi nella jungla d’asfalto.

Io, che vivo a Roma e ho deciso di spostarmi esclusivamente a piedi o in monopattino, rischio la vita ogni giorno, soprattutto da quando ho deciso di imporre agli automobilisti il rispetto del codice stradale. E quindi, sulle strisce, io, non aspetto mai: io passo e costringo le macchine che arrivano a tutta velocità a rallentare, e se non rallentano, ad inchiodare all’ultimo momento. O ad ammazzarmi.

Spesso mi insultano, qualche volta si scusano. L’ultima volta una donna si è fermata e mi ha detto: “Scusi, non l’ho vista perché cercavo parcheggio”. Cercava parcheggio a tutta velocità, sulle strisce pedonali e in prossimità di un semaforo rosso.

Pochi minuti dopo, in piazza Venezia, un’auto della polizia municipale - sempre sulle strisce pedonali - stava per prendere in pieno un gruppo di turisti, mentre il vigile guidava parlando al telefono.

In compenso, su facebook, sotto all’articolo in cui si parlava dell’investimento delle due donne cinesi a Terni, ho trovato un commento che diceva così: “Ce la prendiamo sempre con gli autisti, ma quando si attraversa la strada bisogna stare attenti”.

Perché sia chiaro che se un pedone viene investito sulle zebre, la colpa è sua che si è distratto. Non dell’autista. L’automobilista può permettersi di essere distratto, di stare al telefono, di andare oltre i limiti di velocità: è il pedone che deve fare attenzione a non farsi investire!

Ovviamente questo è quanto sostiene la mentalità comune, non certo la legge, secondo la quale la condotta del pedone può essere considerata imprudente solo quando non consente all’automobilista di evitare di investirlo, pur nel pieno rispetto delle regole del codice della strada.

Il conducente è tenuto infatti a prevedere anche le altrui condotte imprudenti e, nei limiti del possibile, evitare l’impatto. “In pratica - spiega il sito La legge per tutti - chi si mette al volante deve salvaguardare la vita di chi sta attorno, non solo rispettando i limiti di velocità, ma prefigurandosi la possibilità che qualcuno violi il codice della strada e, quindi, mettendosi nella condizione di poter frenare per tempo”. “In buona sostanza - prosegue il portale di consulenza legale - l’automobilista è responsabile anche del comportamento imprudente del pedone. Dunque, ove il conducente noti la presenza di pedoni che tardano a scansarsi - spiega la Cassazione – questi deve rallentare la velocità e all’occorrenza anche fermarsi”.

Ricordo che tra i quiz per l’esame di guida c’era questa domanda: “Un pedone attraversa la strada senza avere la precedenza. Che cosa fate?”

1. Suonate in clacson, 2. Scendete dall’auto e gli spiegate il codice della strada 3. Vi fermate e lo fate passare 4. Proseguite la marcia perché è vostra la precedenza.

La risposta giusta è l’unica che non ho mai visto applicata.

C’è bisogno di aggiungere che, invece, in presenza delle strisce pedonali l’automobilista è tenuto a rallentare in ogni caso, cosa che – di fatto – non avviene spesso nemmeno in presenza di pedoni in transito?

Eppure viene ritenuto normalissimo che il pedone, anche di fronte alle zebre, debba aspettare che la strada si liberi da tutte le auto per azzardare la traversata, e che debba effettuarla velocemente proprio per non rallentare la marcia delle auto in arrivo. E questo nonostante “condotta imprudente” sia considerata proprio la troppa velocità e non certo la lentezza. Se tutti i pedoni, come me, cercassero di far valere i propri diritti, probabilmente i morti sulle zebre aumenterebbero a dismisura.

Per questo motivo penso che sia venuto il momento di cominciare a parlare di pezofobia.

Perché non è possibile che se un’insegnante si suicida è vittima di transfobia, anche se nel suo messaggio di addio non è presente alcun accenno a discriminazioni subite, se una donna subisce violenza da un uomo – a prescindere dal contesto - è vittima del patriarcato, se un nero viene aggredito da un bianco è sempre episodio di razzismo, se scoppia una rissa per futili motivi e uno dei coinvolti è gay si grida all’omofobia, mentre trecento pedoni assassinati ogni anno in Italia sono vittime di incidenti, fatalità, tragedie.

No, la pezofobia esiste eccome: il pedone non viene ucciso per una fatalità, ma perché sottoposto ad una condizione discriminatoria gravissima.

Il fatto stesso che i pedoni siano relegati sui marciapiedi viene considerata una cosa normale, ma non lo è. La Roma antica era tutta zona pedonale: i carri non potevano entrare dentro le mura, mentre oggi non c’è vicolo di una qualsiasi città dove non arrivino i Suv, mentre i pedoni sulla carreggiata possono metterci piede solo per attraversala, ed in condizioni, come si diceva, molto specifiche: zebre, semaforo verde, totale assenza di traffico.

Oggi le strade – tutte le strade - appartengono alle macchine: pedoni, ciclisti e monopattini vengono trattati come intrusi, la loro presenza è vissuta con insofferenza.

Chi poi è costretto a marciare sul manto stradale perché sul marciapiede non può salirci - come biciclette e monopattini – viene trattato con altrettanto odio e intolleranza. E non solo agli incroci: quante volte abbiamo letto su facebook post contro i ciclisti, rei di “mettersi in mezzo alla strada” intralciando la corsa degli automobilisti?

Da ciclista impenitente, devo sottolineare come l’ostilità degli automobilisti (che spesso sfocia non solo in strombazzate ma anche in caterve di insulti e in manovre pericolosissime) esplode se procedi in mezzo alla strada anche in un vicolo strettissimo, in prossimità delle zebre o di fronte a un semaforo rosso, quando – cioè – l’automobilista dovrebbe comunque rallentare. Dunque il problema non è che intralci il traffico; il problema è che esisti.

Per non parlare poi dei monopattinisti, oggi forse la categoria più odiata e denigrata in assoluto.

Nei meme sui social chi va in monopattino viene paragonato a chi parla in corsivo, a chi gioca a padel, a chi fa i video su Tik Tok. Insomma il monopattino è un giochetto di moda, non certo un mezzo di trasporto ecologico e non ingombrante.

Non a caso nel dibattito pubblico e politico il problema oggi sono i monopattini, mica le automobili. È contro i monopattini che si accanisce la legge discutendo ogni giorno nuove norme per scoraggiarne l’uso, e trova più spazio sui giornali un monopattino che urta un pedone che un automobilista che lo uccide.

D’altra parte, se la Vespa è da fichi, la Cinquecento anche di più e la moto non ne parliamo, chi va in monopattino non è nemmeno uno sfigato: è considerato proprio un cretino, una piaga della società, e non esiste E-Scooter Pride, come non esiste il Pederastian Pride, e nessuno dei promotori della legge Zan si sogna di introdurre i pedoni tra le categorie sociali protette.

Perché? Perché quella dei pedoni, in Italia, è una minoranza assoluta e silenziosa. Gli italiani sono un popolo di automobilisti e quei pochi che vanno a piedi non hanno coscienza di sé, né tantomeno dei propri diritti.

Dunque no. No, non si tratta di “incidenti”: si tratta di omicidi, si tratta di aggressioni a minoranze indifese, si tratta di un’intolleranza alla quale – se fossimo un Paese coerente – andrebbe dato un nome, come è stato per il sessismo, il razzismo, l’abilismo e l’omofobia: è tempo di cominciare a parlare di ciclofobia, monopattinofobia, pezofobia.

Parole che non esistono, ma la cui introduzione avrei proposto volentieri al mio vecchio insegnante Luca Serianni. Se nel frattempo non fosse stato ucciso da un automobilista. Come Bonvi, uno dei più grandi fumettisti italiani. Come Antonio e Nicola, due ottantenni ammazzati il giorno di Pasqua mentre facevano una passeggiata; come Gaia e Camilla, uccise nel 2019 da Piero Genovese; come Gino, ammazzato in Trentino mentre attraversava la strada lo stesso giorno delle due donne cinesi a Terni.

Come migliaia di vittime di una strage silenziosa e della quale a nessuno importa nulla. Perché non fa prendere voti. Prima gli italiani sì, prima i pedoni mai. D’altra parte suonerebbe ridicolo detto da politici che sfrecciano in autoblu a cento all’ora con tanto di scorta.

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