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“Rapito”, Edgardo Mortara smentisce Marco Bellocchio

Il film sta ottenendo un grande e meritato successo anche al Politeama di Terni, ma è importante conoscere che cosa c’è dietro la storia che racconta. In due articoli pubblicati nel 1907 è lo stesso protagonista a sfatare la ricostruzione sposata dal regista

Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio che sta ottenendo uno straordinario – e meritatissimo – successo, regalando ossigeno a tutti i cinema italiani, è un film dagli indubbi meriti ma in cui l’estetica è inversamente proporzionale all’etica.

Un capolavoro sotto il profilo cinematografico, profondamente disonesto sotto quello intellettuale. Perché offre allo spettatore un pezzo di storia dimenticata con una ricostruzione magniloquente, ma la storia la falsifica, ingannando l’incauto spettatore che del caso Mortara non sa nulla e la cui percezione degli eventi viene presa in ostaggio dalla visione del più venerato regista italiano.

Più intoccabile di un dogma, più sacro del crocifisso (che per la cronaca, in Vaticano viene rimosso – per rispetto – in presenza di ebrei), Marco Bellocchio è circondato da tanta devozione che persino la critica cattolica si è inginocchiata di fronte al Pontefice Massimo della cinematografia tricolore, limitandosi a far notare timidamente che l’interpretazione del Papa offerta da Paolo Pierobon è “un po’ sopra le righe” e che la storia di Edgardo Mortara viene decontestualizzata, rendendo incomprensibile il gesto di Pio IX, che fa sottrarre un bambino ebreo per rieducarlo alla fede cristiana.

Perché, per inciso, di sottrazione e non di rapimento si tratta, quindi il film è in malafede sin dal titolo. Quello di lavorazione, non a caso, era il più corretto La conversione: ma il concetto di rapimento rimanda subito alla scomparsa di Emanuela Orlandi e la tentazione di creare un parallelo tra i due sudditi del Papa era evidentemente troppo forte.

A differenza di Emanuela Orlandi, però, Edgardo Mortara non è stato affatto rapito. Il rapimento è un’azione illegale, che vede la vittima sequestrata con la violenza e nascosta con intenti criminali, mentre Edgardo è stato prelevato dalla Polizia e portato in un collegio cattolico dove è rimasto volontariamente fino alla maggiore età. Quindi convertito sì, sottratto alla famiglia sì, ma rapito no.

Badate bene, non sto dicendo certo che strappare un figlio ai propri genitori sia una cosa legittima. Ma le parole sono importanti: tra arresto e rapimento la differenza sta nella legalità. E un conto è una legge ingiusta, un conto un atto fuorilegge.

Non a caso l’inquisitore Feletti che aveva ordinato il sequestro del bambino, dopo l’Unità d’Italia, venne arrestato e processato dalle autorità sabaude, e infine assolto proprio perché non aveva commesso un abuso.

Poi è risaputo che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ma il caso di Edgardo Mortara è semmai associabile a quello di Bibbiano, perché quello che ha fatto Pio IX è esattamente quello che fanno gli assistenti sociali che strappano i bambini a una famiglia che ritengono inadeguata. Con l’unica differenza che l’aiuto che il Vaticano voleva dare a Edgardo non era di carattere sociale ma metafisico.

E’ un concetto che il pensiero materialista di oggi difficilmente può accettare, ma in tutta la sua storia bimillenaria la Chiesa Cattolica, convinta che la vita terrena sia solo un breve transito verso l’infinito, si è interessata alla salvezza delle anime ben più che a quella dei corpi. Non a caso anche agli eretici fino all’ultimo momento veniva offerta la possibilità di redenzione, e la peggiore condanna che poteva infliggere il Papa non era il carcere o la morte, ma la scomunica.

Se si ignora completamente questa prospettiva, il caso Mortara diventa incomprensibile e può essere recepito solo in chiave simbolica.

Non a caso il pastore protestante Peter Ciaccio, nella sua recensione, legge tutto i film come paura atavica dell’Orco e del terrore – di un genitore – di vedersi strappare il proprio figlio.

Il film si presta dunque a letture metaforiche di ogni sorta. D’altra parte altri critici – difendendo la distorsione della realtà compiuta dal regista – si sono concentrati sulla poetica dell’artista, che sin dal folgorante esordio con I pugni in tasca non fa che raccontare il conflitto tra genitori e figli, e in questo caso tra papa Pio IX e il suo figlio adottivo Edgardo.

Il problema è che quando questa poetica la esprimi con una storia totalmente inventata, inverosimile e strampalata come L’ora di religione di danni ne fai pochi, ma quando ti cimenti con capitoli di storia come il caso Moro o quello Mortara rischi di dispensare ignoranza e pregiudizi. I sostenitori di Bellocchio continuano a ripetere che il film è un’operazione artistica e come tale non deve attenersi alla verità. Il problema è che Rapito non è affatto un’opera d’arte “liberamente ispirata” al caso Mortara ma un film storico che offre una ricostruzione incredibilmente dettagliata sotto alcuni aspetti, salvo poi “nascondere” particolari fondamentali.

Una domanda che sto facendo a tutti quelli che hanno visto il film (e alla quale nessuno riesce a rispondermi) è: per quale motivo Pio IX ha fatto sottrarre quel bambino alla sua famiglia?

Quale è la ragione di una tale ostinazione da costargli uno scandalo internazionale e la stessa corona di Papa Re, visto che proprio il caso Mortara fu utilizzato dalle potenze europee per giustificare l’invasione dello Stato Pontificio da parte delle truppe sabaude?

La verità è che in tutto il film questo motivo non viene mai spiegato e nemmeno accennato, e questo semplicemente perché attiene a una dimensione che a Bellocchio non interessa: la fede.

Il film lascia intendere che il Papa più aperto e progressista dell’epoca – un’autentica cerniera tra il mondo antico e quello moderno - fosse pedofilo, sadico, crudele, assetato di potere e affetto da delirio di onnipotenza. Si sofferma volentieri su scene cruente (come quando il Papa sogna di essere circonciso con la violenza) e sulla testardaggine con cui sfida il mondo intero pur di non fare un passo indietro (evocando gli ultimi giorni di Hitler) ma non racconta nulla di questo personaggio, che pure era stato accolto come un messia al momento dell’elezione e – grazie alla fama di sovrano illuminato - si era ritrovato a diventare il primo eroe del Risorgimento, salvo poi trasformarsi nel suo più acerrimo nemico, quando si era rifiutato di muovere guerra alla cattolica Austria. Paradossalmente, il papa additato più di ogni altro come tiranno e retrogrado, è proprio quello che aveva portato nello Stato della Chiesa la ferrovia, il telegrafo, l’illuminazione e la libertà di stampa, aveva promosso un’amnistia per i condannati politici, aperto il ghetto e concesso maggiori diritti agli ebrei.

Ma la ragione vera – e seria – che porta un papa tanto popolare a prendere una decisione così grave come strappare un bambino alla propria famiglia non viene spiegata e nemmeno detta di sfuggita.

Ed è curioso come Bellocchio abbia girato ben due film per spiegarci le ragioni dei brigatisti che rapirono Aldo Moro, mostrarci tutta la loro umanità, i tormenti, le discussioni, per lasciarci infine con l’idea che siano stati costretti a massacrare lo statista, mentre in Rapito tutti i cattolici sono cinici, freddi, i funzionari implacabili, le donne appaiono come streghe, il Papa è viscido, ambiguo, crudele, sadico e velatamente pedofilo.

Non c’è un moto di umanità in nessuno dei cristiani che compaiono nel film, tutti rappresentati come mostri senza sentimenti, guidati unicamente dalla brama di potere o dalla cieca obbedienza a un dogma. E sarà una coincidenza che l’inquisitore grigio, freddo e spietato, strumento del potere pronto a vestire i panni della vittima sacrificale, abbia proprio il volto di Aldo Moro, ovvero il grandioso Fabrizio Gifuni?

Il film ignora che nello Stato Pontificio il battesimo dei bambini ebrei era proibito, ignora i tentativi di mediazione fatti dal Papa con i Mortara, ignora i rapporti tra Edgardo e la sua famiglia (che non si interruppero mai), inserisce “trovate artistiche” che deformano la realtà, come il finale con quel “porco” gridato dal ragazzo, che vuol farci credere che covasse un odio represso verso il Papa nei confronti del quale – al contrario – le fonti testimoniano un grandissimo amore e venerazione, tanto da farsi prete e scegliere Pio come nome.

Bellocchio mostra una schiera di ebrei “rieducati” in Vaticano, ma non ci spiega chi sono e perché stanno lì, lasciando pensare che la Chiesa avesse l’abitudine di sequestrare bambini.

Dunque se vogliamo fare un po’ di ordine, innanzitutto va ribadito che il battesimo dei bambini ebrei era proibito nello Stato Pontificio, così come era proibito ai cristiani di lavorare nelle famiglie giudaiche, proprio per evitare questi incidenti. Va detto anche che, nonostante appartenesse allo Stato Pontificio, Bologna era una città molto liberale dove la Chiesa faticava ad imporre la sua autorità tanto che, in barba alle regole, la famiglia Mortara teneva a servizio una ragazza cristiana: Anna Morisi, poverissima e analfabeta, cresciuta senza padre e tanto ignorante da non sapere indicare nemmeno la sua età.

Come spesso accadeva, ancora neonato Edgardo si era ammalato gravemente, e la domestica aveva pensato di battezzarlo.

Quel battesimo, totalmente illegale ma a tutti gli effetti valido, era rimasto segreto per sei anni, fino a quando la stessa Anna aveva tentato di battezzare un altro bambino in condizioni analoghe: questa volta era stata scoperta e fermata in tempo, e aveva confessato anche il precedente.

Anche questa storia rimane totalmente fuori dalla sceneggiatura. Addirittura Bellocchio cerca di farci credere che il battesimo non fosse mai avvenuto e che la domestica fosse stata indotta dall’Inquisitore a testimoniare il falso per offrire un pretesto al “Ratto del fanciullo”.

Quel che è certo è che secondo la dottrina cattolica una volta che quel bambino, con il battesimo, era diventato cristiano, se fosse stato educato come ebreo sarebbe incorso nell’apostasia e destinato all’inferno. Non a caso, tutti i sostenitori della famiglia Mortara sposeranno sempre e solo la tesi secondo cui il battesimo non era valido (con motivazioni assurde, come il fatto che fosse stato amministrato con l’acqua della cucina o che la Morisi fosse una prostituta).

Il Papa lo fa rapire, quindi, per salvargli l’anima. E prima di arrivare al sequestro cerca tutte le alternative possibili. La prima proposta alla famiglia Mortara era stata quella di far educare il bambino in un collegio cattolico di Bologna (restando quindi a fianco alla famiglia); una volta maggiorenne, avrebbe deciso lui se aderire alla fede cristiana o a quella ebraica. La famiglia aveva rifiutato radicalmente l’ipotesi e il rapimento dunque, arriva dopo una trattativa e non certo nel modo cruento rappresentato nel film.

Il “Non possumus” ribadito da Pio IX è relativo proprio a questo: Il Papa non poteva assumersi la responsabilità della dannazione eterna di un innocente e per questo doveva garantirgli un’educazione cattolica, lasciandogli poi la libertà, da adulto, di scegliere la sua strada.

Ora, è ovvio che da un punto di vista laico il gesto del Papa è assurdo. Ma se è per questo, dal punto di vista laico è altrettanto priva di senso la scelta della famiglia Mortara, che rinuncia al proprio figlio pur di non convertirsi al cristianesimo, o di consentire che si avvicini alla Chiesa.

Il problema è che all’ateo Bellocchio non interessa la prospettiva religiosa, che è l’unica – però – che dà un senso a tutta questa storia.

Se togliamo la fede tanto da Pio IX quanto dalla famiglia Mortara, rimane solo superstizione e potere. L’amore e la fede restano completamente esclusi da tutta la vicenda.

Non c’è, in effetti – né sul versante ebraico né su quello cattolico – un solo momento di spiritualità, di pietà o di autentico amore, se non nello stesso Edgardo: che ama ma non è corrisposto da nessuno. Né dalla madre (che lo scaccia sul letto di morte, quando lui tenta di convertirla per “restituirle la vita” che lei gli aveva donato), né dal Papa-papà (quando lo fa cadere a terra per un moto d’affetto troppo impetuoso, viene punito e umiliato) e nemmeno da Gesù Cristo: nella scena più suggestiva del film, il piccolo Edgardo toglie i chiodi al crocifisso, il quale – liberato dal supplizio – se ne va senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

Il caso Mortara per il pontefice del cinema diventa dunque solo ed esclusivamente uno scontro tra poteri: quello della Chiesa Cattolica e quello della Comunità ebraica internazionale, che riesce a creare un caso capace di smuovere politici, banchieri e giornalisti del mondo intero, in particolare negli Stati Uniti, da dove arriva anche un primo spettacolo teatrale, seguito da un altro scritto in Francia e messo in scena di fronte a Napoleone III (in cui il caso Mortara viene ricondotto al razzismo) e da un terzo in Italia, dando man forte ad una propaganda anticlericale che non lascia scampo al Papa Re.

Intendiamoci, nessun papa oggi si sognerebbe mai di fare quello che fece Pio IX. Ma è vero anche che sono passati 150 anni di teologia e due Concilii.

La cosa più grave, dunque, è che l’opera di Bellocchio rischia di rinfocolare il conflitto interreligioso gettando benzina sul fuoco dei pregiudizi e degli antichi rancori.

Questo film avrebbe dovuto girarlo Steven Spielberg, che aveva già scelto gli attori e iniziato i sopralluoghi a Roma, ma che poi ha rinunciato per dedicarsi a West Side Story.

E’ un vero peccato, perché il risultato sarebbe stato agli antipodi: Steven Spielberg è un regista ebreo con una profonda sensibilità cristiana. Se l’avesse raccontata il regista di Munich, quella di Edgardo Mortara sarebbe diventata una storia di riconciliazione e non di sostanziale disprezzo per la religione, ritratta senza un briciolo di fede e umanità. E questo vale anche per l’ebraismo, ridotto da Bellocchio a un sistema di potere e di rituali, con un padre torvo e rancoroso come nelle peggiori caricature antisemite (è vero anche che l’uomo in seguito finirà in carcere a Firenze con l’accusa di aver ucciso un’altra domestica), un rabbino romano intrallazzone e servile (Paolo Calabresi, che regala un tocco di comicità all’opera) e una madre (la sempre più magnetica Barbara Ronchi, forse la migliore attrice italiana del momento) che dimostra forza e determinazione, ma che – fino all’ultimo – mette l’appartenenza confessionale davanti all’amore del figlio.

Insomma un’opera manichea, in cui è chiaro chi sono i cattivi ma non chi siano i buoni. Un affresco storico che ignora la storia. Un film incentrato su un uomo di cui non viene raccontata la vita.

Dopo la Presa di Porta Pia, Edgardo – ormai ventenne – non solo si rifiuta di tornare con la famiglia, ma temendo di essere costretto a seguirli con la forza, fugge segretamente da Roma (con tanto di travestimento) e si rifugia all’estero, diventando un abilissimo predicatore: gira il mondo, parla nove lingue, muore a 90 anni nel 1940 e nel 1907 replica sul “L’Avvenire d’Italia” ad un articolo sulla sua storia scritto da Raffaele De Cesare, smentendone la ricostruzione e argomentando con molta più lucidità e arguzia del suo avversario, e anche con una certa dose di sarcasmo.

E’ lo stesso Mortara, nelle sue lettere al giornale, a raccontare che – “come tante volte mi disse la mia madre amatissima”– nel prelevarlo “le guardie usarono tutti i riguardi e le delicatezze possibili, eccetto una che si mostrò alquanto burbera, ma non commise nessuna violenza”. Mortara racconta di aver passato “un mese intero” con i genitori alla Casa dei Catecumeni, e di averli rivisti anche nelle sue successive destinazioni, rifiutandosi sempre di seguirli.

De Cesare – nel suo articolo - per dimostrare che il sacraamento amministrato dalla domestica fosse invalido scrive che Edgardo era stato sottoposto a Roma ad un “secondo” battesimo. “Visto che si occupa tanto di studi religiosi – replica Mortara – dovrebbe conoscere la differenza tra il battesimo (ricevuto a Bologna) e le cerimonie che lo accompagnano quando è amministato in maniera solenne, e che nulla aggiungono al sacramento (fatte a Roma)”.

Quando lo scrittore liquida la spiegazione del diretto interessato come “cavillo canonico”, Mortara replica “Voleva forse che portassi ragioni geografiche o botaniche?”.

Eppure la lucidità è sempre stata contestata a Mortara – come, d’altra parte, ad Aldo Moro – liquidati entrambi come vittime manipolate e affette dalla Sindrome di Stoccolma, quindi inattendibili. De Cesare stesso scrive di rendersi conto “della penosa condizione del suo spirito”: “Un triste destino lo obbliga, dopo le vicende che commossero quasi un secolo fa l’Europa civile, a difendere quanto di iniquo e di violento si compì a danno suo e della sua famiglia. Una violenza che lui stesso è costretto a giustificare dalla disciplina ecclesiastica”.

“La disciplina ecclesiastica – replica Mortara - non ha avuto sulle mie parole altro influsso che mitigare la forma assai severa con cui giudicavo i suoi apprezzamenti, intorno al fatto da lui narrato con sì poca esattezza”.

Archiviata dunque la credibilità sotto il profilo storico, è vero che la pellicola rimane un apologo sui pericoli di uno stato confessionale; un pericolo che gli israeliani conoscono molto bene, visto che la crisi in Medioriente trova la sua origine nella volontà di avere uno Stato ebraico, dove i palestinesi sono discriminati tanto quanto gli ebrei lo erano in quello pontificio.

*direttore dell'Istess

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