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Accadde a Natale, un racconto al giorno verso la festa più bella dell’anno

Da oggi al 25 dicembre, TerniToday pubblicherà testi, scritti o letti da un grande nome del cinema o del teatro italiano, estratti dal libro di Arnaldo Casali

Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sul Natale e non avete mai osato chiedere. Questo è lo slogan usato da Arnaldo Casali per presentare Accadde a Natale, il libro pubblicato da Graphe.it che non rappresenta una raccolta di racconti natalizi, ma un vero e proprio romanzo il cui protagonista è il Natale stesso, e che attraverso una carrellata di duemila anni dal 7 a.C. al 2019 scava nell’identità stessa della festa e nella sua magia, frutto di memorie personali e ataviche, canzoni e leggende, fiabe e fatti storici. Perché il Natale è parte dell’umanità stessa, ha radici profonde che precedono di millenni la nascita stessa di Cristo.

Da oggi fino al 25 dicembre TerniToday affianca ed estende il percorso offerto dal libro pubblicato da Graphe.it con una serie di racconti che contribuiscono a ricostruire la genesi, le tradizioni e la magia del Natale proponendo contenuti extra e versioni multimediali delle storie presenti nel volume.

Ogni mattina troverete su queste pagine uno dei racconti del libro letto da un grande nome del cinema, del teatro e della televisione introdotto dallo stesso Arnaldo Casali oppure racconti inediti non inclusi nel libro.

Cominciamo con uno dei racconti principali di Accadde a Natale che vi presentiamo però in una versione alternativa e più estesa rispetto a quella che potete trovare nel libro, disponibile in tutte le librerie d’Italia e negli store online. Buona lettura.

LA SCHEDA | Il link a graphe.it: tutte le informazioni su Accadde a Natale

TRADIZIONI DI NATALE

A Nillo piaceva moltissimo passeggiare per il centro della città alla vigilia di Natale, verso le sette, sette e mezza, anche otto magari.

Sai, quando chiudono i negozi. Quando la città sembra un grande formicaio, con la gente che corre ovunque per gli ultimi ultimissimi acquisti, i regalini quelli – sai – da fare a quelli che eventualmente te li potrebbero fare e non puoi rischiare di restare a mani vuote. Una candela, una maniglia colorata, una portaspilli, un portafogli, un portafigli, una cagata qualunque…

Per Nillo quello davvero era il momento più magico dell’anno.

Adorava girare per le strade a quell’ora, con quegli incontri casuali, quegli auguri dell’ultim’ora. Quell’atmosfera frizzante che hanno addosso tutti, la sera della vigilia.

Comprare una cosa qualsiasi al mercatino di Natale e farsi gli auguri con il negoziante, anche lui pronto a chiudere baracca e raggiungere la famiglia per il cenone.

Anche il cinema chiude alle otto, la sera della vigilia. Sembra davvero che quella sera sia sacra per tutti. Tutti quelli che vivono in questo mondo. Che nessuno lavori in quella sera, che tutti abbiano una tavola intorno a cui riunirsi.

Nillo era sempre in ritardo la sera della vigilia. Come ci riusciva non lo sapeva nemmeno lui. Forse nemmeno il più grande fisico, il più grande psichiatra e il più grande filosofo messi insieme potrebbero riuscire a spiegare perché Nillo, anche la sera della vigilia, fosse sempre in ritardo. Perché arrivasse a scegliere alle otto meno cinque quei pochi regali che faceva a Natale, perché anche al cenone della vigilia non riuscisse mai ad arrivare prima delle nove e un quarto.

Ma in fondo, rifletteva, anche quella era una tradizione.

Per Nillo era una tradizione anche aspettare per mesi, per settimane, per giorni, per ore, quell’atmosfera magica, e non riuscire ad apprezzarla per la fretta, o semplicemente per la perdita di tempo.

Perché non è che Nillo a Natale fosse poi così indaffarato. Semplicemente, perdeva tempo. Come sempre.

Si riproponeva di meditare davanti al Presepe e l’albero, ascoltando I cerini di Santo Nicola do Capossela e finiva a meditare davanti alla televisione guardando un vecchio film. Che, oltretutto, non era nemmeno ambientato a Natale.

Si riproponeva di andare a letto alle undici, e di leggersi Canto di Natale di Dickens, e poi stava in ufficio fino alle quattro, a trastullarsi su internet.

Ancora non ci era riuscito, a leggersi Canto di Natale. Lo aveva conosciuto in tutte le salse, quel racconto: negli omaggi di Brizzi e Ritorno al futuro e nelle parodie di Casa Keaton e Radio Deejay. Aveva visto il film e il cartone animato, ma il libro, quello ancora non l’aveva letto.

Se l’era fatto regalare l’anno prima dalla madre, per Natale, ma poi il Natale era passato e lui non l’aveva letto. Quest’anno sarebbe stata la volta buona?

Forse, chissà, sarebbe diventata una tradizione di Natale anche cominciare sempre il libro di Dickens senza finirlo mai.

E che male c’era? Se per milioni di italiani era una tradizione di Natale andare a vedere i film idioti di Boldi e De Sica, non poteva esserlo anche lasciare Dickens incompiuto, per avere così un nuovo desiderio da esaudire, un nuovo traguardo da raggiungere, per il Natale prossimo? Tenersi da parte un’altra bella attesa da coccolare?

Perché in fondo, meditava Nillo passeggiando per le vie addobbate della città, sta proprio tutta nell’attesa, la magia del Natale. L’attesa magica di una magia che poi non arriva mai. Almeno, non arriva più, quando diventi grande.

Ogni anno, Nillo, appena cominciava a vedere le luminarie accendersi nelle vie della città si riproponeva: quest’anno, sì, quest’anno mi preparo bene. Quest’anno lo vivrò fino in fondo, il Natale; ne assaporerò tutta la magia.

Quest’anno niente televisione. Quest’anno niente lavoro fino a tardi. Quest’anno troverò il tempo di fermarmi estasiato a guardare queste splendide luminarie. Sì, mi fermerò e ne coglierò tutta la magia. Così come assaporerò tutta la magia dell’albero, a casa. E mi godrò tutta la compagnia dei parenti, delle zie e dei cugini. Sì, lo farò. Quest’anno lo farò.

Anche l’attesa della Giostra, era ormai una tradizione.

Erano dieci anni che quel carosello settecentesco stazionava per tutta la durata delle feste in piazza Tacito. Nillo ci passava davanti, guardava quei cavallucci barocchi, e si ripeteva: quanto mi piacerebbe farci un giro.

Il problema è che quando sei bambino, sulla giostra ti ci porta mamma.

E quando sei grande, chi ti ci porta?

Nillo si ripeteva che ci sarebbe andato con una persona speciale. Non sapeva chi fosse, questa persona. Ma sapeva che un giorno sarebbe andato con lei, su quella giostra magica.

Ogni anno Nillo passava in piazza Tacito e guardava la giostra. E diceva: il prossimo anno sarà la volta buona.

Il Natale, pensava Nillo, è un’ottima metafora della vita. Peccato, che la vita non torna ogni anno.

Eppure Nillo si trovava curiosamente a provare ogni anno nostalgia per il Natale passato. E non, badate bene, perché quelli presenti fossero più brutti di quelli passati, anzi, tutt’altro. Ma quando pensava al Natale, anche ciò che nel presente appariva squallido e prosaico, divenuto passato si trasfigurava acquisendo poesia e persino magia.

Addirittura, si rendeva conto che le cose più poetiche e magiche, sul Natale, le aveva in qualche modo elaborate proprio nei natali meno magici e poetici.

Così Nillo capiva che forse, la magia del Natale, sta proprio nella memoria.

Una tradizione natalizia di Nillo, ormai da dieci anni, era scrivere racconti.

Quando aveva vent’anni, il vecchio Nillo, voleva fare lo scrittore. E ne scriveva, di storie.

Ora che lo scrivere era diventato il suo mestiere, ma un altro tipo di scrivere, però, e sapeva bene che scrittore forse lo era, ma artista di certo non lo sarebbe mai stato, Nillo aveva smesso di scrivere racconti. Da anni ormai. I racconti di Natale, però, no. Quelli continuava a scriverli. Ogni anno. A volte con più entusiasmo, a volte quasi d’inerzia, quasi solo per rispettare una tradizione. Anche perché ogni anno glie ne venivano in mente diversi. E poi non aveva il tempo, o la voglia, di metterli su carta.  Così spesso gli capitava di cominciarne uno un anno, e di doverlo completare l’anno seguente.

Per fare una tradizione, a Nillo, bastavano anche due-tre anni. E i racconti di Natale li scriveva da ben dieci anni. Da quando, passeggiando una sera per piazza Navona tutta addobbata, gli era venuta voglia di imprimere su carta quella magia.

Erano passati dieci anni da allora, e a piazza Navona non ci era più tornato, sotto Natale, ma ogni anno aggiungeva uno, due o tre racconti alla sua raccolta. Come fossero palle dell’albero o statuine di un presepe da arricchire sempre di più.

Siccome poi i racconti si scrivono perché qualcuno li legga (a differenza degli articoli, che si scrivono perché c’è qualcuno che ti paga per farlo) ogni anno Nillo si domandava se li avrebbe mai pubblicati, un giorno, quei racconti. Che pubblicare un libro a sue spese, era sempre stato contrario ai suoi principi. Ma un libro di Natale, però, era diverso. In fondo – pensava – sarebbero stati soldi spesi bene. Almeno avrebbe avuto qualcosa da regalare ad amici e parenti, a Natale!

Allo stesso tempo pensava che se avesse pubblicato quei racconti, avrebbe dovuto fermare per sempre quella storia infinita che invece continuava ogni anno. Adesso la fatidica proposta della casa editrice era arrivata e Nillo quel natale del decennale se lo passò col dubbio: Pubblicare o non pubblicare? E alla fine disse di no: non è ancora venuto il momento. Coccoliamo ancora questa attesa, magari per quindici anni. Perché è sempre meglio una gallina domani che un uovo oggi.

Un’altra tradizione di Nillo, per Natale, era farsi i regali da solo. Perché quando sei piccolo, Natale è davvero il momento in cui ogni desiderio si avvera. Poi cresci, e quella magia svanisce, forse, anche perché sono i desideri realizzati a svanire. E se non ci stai attento, finisce che prima o poi spariscono anche i desideri. E allora sono guai.

E così il vecchio Nillo a un certo punto – avrà avuto vent’anni – decise di fare da solo.

Divenne anche quella una tradizione: comprarsi il regalo, impacchettarselo per bene, metterlo sotto l’albero e aspettare l’arrivo di Babbo Natale prima di aprirlo. E poi scartarlo con la stessa ansia, gioia, ed entusiasmo di un bambino. Per poi riporlo, proprio come un bambino viziato, dopo averci giocato appena un poco, e dimenticarselo lì, in qualche scaffale.

Perché giustamente un adulto che è abituato a comprarsi da solo quello che gli serve o gli piace, per farsi una “sorpresa” di Natale bisogna proprio che si compri qualcosa di particolarmente megalomane e altrettanto inutile, qualcosa che durante l’anno non avrebbe mai il coraggio di comprarsi.

Per dire, la trilogia di Ritorno al futuro se lo comprò addirittura due volte, a distanza di dieci anni, prima in vhs e poi in dvd.

Da vent’anni, poi, Nillo faceva Babbo Natale, per i bambini della famiglia.

Quando aveva cominciato era un bambino anche lui. Aveva undici anni, ed erano appena quattro anni che aveva scoperto la verità su Santa Claus. Anche se quattro anni, a quei tempi, erano un’eternità.

Il bambino più piccolo della famiglia, quell’anno, era sua cugina Serena. E non è che ci era cascata per niente, né aveva fatto finta di cascarci, nel gioco della mascherata.

Diciamo che all’inizio la cosa era nata come una specie di sketch da fare in famiglia. Avevano trovato una maschera di gomma da Belarducci, a poco prezzo. E Nillo, egocentrico e attore rampante com’era, si era subito proposto per interpretarlo.

In seguito cominciarono ad arrivare bambini in famiglia. E quando uno diventava troppo grande per credere ancora a Babbo Natale ce ne era sempre pronto un altro più piccolo a prendere il posto. Insomma tra cugini e amici di famiglia, erano cresciute generazioni di bambini col suo Babbo Natale.

Era un rituale, quello della vestizione, a cui Nillo teneva moltissimo ma che con gli anni era divenuto sempre più frenetico, perché ormai i bambini venivano a casa sua solo per vedere il Babbo, e quindi – insomma – bisognava piegarsi anche in quel frangente alle esigenze dell’audience.

Mentre si guardava allo specchio, con quella tuta rossa prestata da zio Bruno quindici anni prima, ogni anno Nillo si ripeteva che gli piaceva proprio, quella tuta. E anche gli stivali di gomma e anche il giubbotto rosso a cui papà aveva attaccato quindici anni prima la pelliccetta bianca. Peccato, si ripeteva, che non poteva indossare anche gli altri giorni dell’anno, quel bel costume rosso. Peccato, perché gli piaceva. E si piaceva, vestito in quel modo. Con la tuta rossa, il cappuccio, gli stivali di gomma. Gli piaceva quel vestito.

Gli piaceva sentirsi come un attore in camerino, prima di entrare in scena. Prima di indossare la maschera di gomma, allacciare la cintura di pelle, indossare i guanti, e attraversare il corridoio al buio, con papà che lo seguiva con la telecamera puntata, e i Bros che intonavano Silent Night nel giradischi.

Gli piaceva contemplarsi allo specchio, con il vestito bianco e rosso, mentre mamma bussava alla porta, dicendogli di sbrigarsi (“sei pronto? Dai, vai adesso che sono tutti di là” – perché c’era un momento del pomeriggio in cui mamma trovava sempre una scusa per far sparire dalla sala tutti i bambini) e si compiaceva di quel vestito artigianale, così vero.

Perché li odiava, i vestiti da Babbo Natale. Li odiava con tutto il cuore, Nillo, quegli squallidissimi vestitacci fintissimi da Babbo Natale, così come quelle odiose barbe finte che non stavano mai al posto giusto.

No, il vestito di Nillo era vero. Artigianale, ma vero. E andava fiero anche di quella maschera di gomma. Si faceva impressione davvero, a guardarsi da dietro quegli occhi rugosi.

Quell’anno meditò pure sul fatto che, per la prima volta, per fare il pancione gli bastò un cuscino solo, anzi che due, come in passato.

E mentre si infilava dentro il camino, con papà che lo riprendeva con la videocamera (ne avevano cambiate quattro, da quando aveva iniziato ad interpretare quel ruolo. Erano diventate sempre più piccole, lui invece sempre più grosso) pensava a come era possibile che in vent’anni, nessun bambino lo avesse mai seguito una volta uscito di scena, nessuno – dico nessuno – lo avesse mai scoperto mentre si cambiava, nessuno si fosse accorto che quella che indossava era una maschera di gomma e non la vera faccia.

Poi quando le luci si accendevano e in un attimo si ritrovava circondato da uno stormo di fanciulli reclamanti a gran voce il proprio regalo, capiva. Capiva tutto.

Si avvicinavano. E l’interesse per l’anziano barbuto durava pochi minuti. Forse pochi secondi.

Poi iniziava il rituale della consegna dei pacchi dono. “Ti aiuto io” dicevano in due, tre quattro. Si fiondavano sul sacco e cominciavano a tirare fuori i pacchi, a leggere i nomi che mamma e zie ci avevano scritto, a consegnarli ai destinatari, ad aprire i propri, a cominciare a giocare.

In cinque minuti la cerimonia era finita.

Non era un ruolo tanto difficile da interpretare. Finché si trattava di intrattenere e divertire i parenti, allora Nillo doveva anche trovare qualcosa da dire, qualcosa da fare. Ma con i bambini non c’era bisogno. Così come non c’era bisogno di inventarsi clamorose uscite di scena, ché tanto – quando il povero vecchio se ne andava – non se lo filava più nessuno, tra i mocciosi.

E così, mentre Nillo si allontanava nel corridoio, zoppicando e salutando con la mano dirigendosi verso la camera da letto dei genitori, capiva il mistero di Babbo Natale. Capiva perché, anche lui, ci aveva messo sette anni prima di coglierlo.

Perché in fondo chi sia Babbo Natale, da dove venga, e tutto il resto, poco glie ne importa, ai bambini. Babbo Natale senza i regali è come il presepe senza il bambinello.

Santa Claus è solo una coreografia. È solo un postino.

Da quando aveva scoperto la verità su Babbo Natale, Nillo se l’era posta tante volte, quella domanda così pericolosa: e se Dio fosse per gli adulti quello che Babbo Natale è per i bambini?

E se quando diventeremo davvero adulti capiremo che anche Dio non esiste, come non esiste Babbo Natale? Che è solo una proiezione dei nostri desideri, delle nostre speranze? Solo una favola che si tramanda da secoli, di generazione in generazione?

Mentre si sfilava velocemente gli stivali e indossava di nuovo gli abiti civili Nillo si rispondeva: No. Non è vero che Babbo Natale non esiste.

Perché Babbo Natale è colui che ci porta i regali. E ognuno se lo immagina diverso: c’è chi lo chiama San Nicola, chi Gesù Bambino, chi Befana e chi Santa Lucia. Chi lo vuole sui cavalli e chi lo pensa sulle renne.

Ma l’unica cosa certa è che porta i regali. E i regali arrivano veramente, perché qualcuno ce li fa, veramente. E a questo punto non importa chi è e come si chiama questo qualcuno. Perché il motivo è comunque lo stesso: ci vuole bene.

Babbo Natale è l’arrivo dei regali. E se i regali arrivano, Babbo Natale è reale.

E allora se Dio è il Creatore, se Dio è amore, comunque lo chiamiamo e comunque ce lo immaginiamo, Dio esiste.

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