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Il mainstreaming spiegato ai miei lettori, intervista a Valerio Lundini

Dopo la tappa a Terni per la stagione del Baravai all’anfiteatro. “Soffro la sindrome dell’impostore, perché mi disegnano su Topolino o mi citano nella hit estiva. La Pezza è finita al momento giusto: un’altra puntata e avrei iniziato a ripetermi. Il paragone con Boris? Mi onora: di quella serie sono un fan della prima ora”

Due giorni prima che Valerio Lundini arrivasse all’anfiteatro di Terni con il suo trionfale monologo – che ha registrato il tutto esaurito in appena sei ore - ho sognato che mi rifiutava un’intervista.

“Dai, ti rubo solo cinque minuti e non ti faccio domande idiote” gli dicevo io. E lui: “Non c’ho tempo, inventate qualcosa”.

“Ma come ‘inventati qualcosa’? – replicavo io - vi lamentate sempre che i giornalisti inventano, e io che voglio essere fedelissimo alle tue parole, vuoi che l’intervista me la inventi?”.

Poi lo accusavo di essersi montato la testa e di fare il divo e lo inseguivo per mezza Terni finché non venivo allontanato malamente dal suo staff.

20210821_203314-2Invece l’intervista, poi, me l’ha concessa, ed è stato gentilissimo, umile e disponibile. Ma l’ansia da prestazione era salita a tali livelli, che è venuta fuori l’intervista più brutta che abbia mai fatto in 22 anni di giornalismo, perché nel disperato tentativo di dire cose originali e intelligenti ho fatto tutte domande idiote. O forse ho fatto domande intelligenti e originali, ma non gli ho dato il tempo di rispondere; ma soprattutto, lui è così paziente e arguto che se anche avessi fatto tutte domande idiote mi avrebbe risposto con la stessa intelligenza con cui ha risposto alle mie domande intelligenti e allora comunque ho sprecato un sacco di intelligenza. Che è poi esattamente quello che fa lui: spreca un sacco di intelligenza fuggendo come il diavolo da tormentoni, luoghi comuni, volgarità, retorica, scavalcando buonismo e cattivismo, politicamente corretto e politicamente scorretto, aggirando imitazioni, dialetti, battute spinte e strumentalizzazioni politiche o ideologiche, sforzandosi sempre di essere originale, inedito, intelligente, anticonformista, per poi ritrovarsi involontario creatore di tormentoni, imitazioni e meme ripetuti sui social fino allo sfinimento.

Allora forse è anche giusto sentirsi a disagio ad intervistarlo. È giusto sentirsi inadeguati, perché l’inadeguatezza è la cifra stilistica di Valerio Lundini. Ma è anche l’unica arma che abbiamo contro l’autocompiacimento, e di conseguenza, il banale e il ridicolo.

Per non dargli un dolore non riporteremo, in queste righe, nessuna delle battute presenti nello spettacolo: d’altra parte, chi non conosce ancora Valerio Lundini ha decine di video a disposizione su youtube per assimilarne la poetica. E solo uno di essi, pur con qualche modifica, lo si ritrova sul palcoscenico: il quiz “Duce o non duce”. Per il resto nessun cavallo di battaglia, nessuna riproposizione di vecchi e nuovi successi: Il mansplaining spiegato a mia figlia è tutto ossessivamente nuovo, inedito, originale. E, ovviamente, irresistibile. Ma questo non c’è bisogno di dirlo: quel che c’è da dire, invece, è che parliamo di umorismo all’ennesima potenza: perché Lundini ironizza sulla stessa ironia, fa umorismo sull’umorismo, prendendo in giro anche i comici e la comicità. Il suo è un viaggio al centro del motto di spirito che scava fino ad arrivare alla radice stessa della risata, che altro non è che un’espressione di disagio e la reazione ad una sorpresa.

(Consiglio, a questo proposito, la visione di tre video particolarmente esemplificativi: “Disguido stradale drammatizzato”, “Dentro la barzelletta” e “Il video virale”)

Potremmo definire quella di Lundini (ma anche della squadra che accompagna i suoi programmi, e che comprende Giovanni Benincasa, Emanuela Fanelli, Valerio Coletta, Stefano Rapone e i Vazzanikki) Metaironia. Il meccanismo dell’ironia è quello secondo cui si dice qualcosa che corrisponde esattamente al contrario della verità; quello tipico di Lundini, invece, è dire qualcosa lasciando intendere che sia esattamente il contrario della verità, quando alla fine si scopre essere proprio la verità.

L’esempio più clamoroso è forse la parodia delle raccolte fondi per iniziative benefiche che aveva per protagonista il Serafico di Assisi, salvo poi scoprire che l’iniziativa benefica era reale. Ma per Valerio anche la sua malattia diventa oggetto di umorismo. Sul palco dell’anfiteatro sale con le stampelle perché si è rotto il malleolo: “Adesso – dice alla fine della serata – io dovrei uscire, voi gridare “bis’, io rientrare e concederlo, ma visto che non posso camminare ve lo faccio subito, e poi me ne vado”.

La fragilità è d’altra parte da sempre una delle sue armi. Ai deliri sul vaccino risponde ricordando che lui, essendo diabetico, il microchip ce l’ha già impiantato per misurare la glicemia. Il tumore che ha avuto alla tiroide, poi, è diventato il tema di una delle battute più celebri: “Da quando sono conosciuto come comico, tutti si sentono in dovere di fare i comici quando parlano con me. Ieri ho chiamato il mio endocrinologo per avere notizie sui noduli che mi hanno trovato. Mi ha detto “purtroppo non sono benigni”. E io: “Non è che devi essere Benigni, eh. Basta che tu sia un buon medico!”.

La sua non è quindi un’ironia distaccata, snob, un’ostentazione di superiorità nei confronti dell’oggetto del suo scherzo, ma è la forma di umorismo più impegnata, che entra dentro la realtà vissuta cercando di offrire uno sguardo nuovo, un punto di vista inedito.

Per questo pur facendo satira e non parodia - ovvero critica e non omaggio – Valerio riesce a non essere mai partigiano ma sempre pienamente lucido nella sua critica, che è sempre feroce ma mai strumentale.

Io, per rompere il ghiaccio, volevo esordire con una citazione della sua barzelletta preferita: “non so se ti ricordi”, perché ci eravamo già visti un mese fa, sulla terrazza del Gianicolo a Roma, per un concerto dei Vazzanikki dove la sua presenza non era stata nemmeno prevista (probabilmente per non monopolizzare l’attenzione) e in cui dopo tre canzoni era salito sul palco senza essere annunciato e caricandosi da solo la tastiera.

20210821_215051-2Anche questa volta mi delude, perché in camerino, appena i ragazzi del Baravai ci presentano, mi fa: “Ma noi ci siamo già conosciuti, vero?”.

È così gentile che prima mi offre il suo aperitivo, poi smette di mangiare perché ho acceso la telecamera e gli sembra cafone mangiare mentre parla, anche se poi la registrazione tanto non la pubblichiamo.

Io parto subito con una domanda che esprime tutto il disagio di dover intervistare qualcuno che ha raggiunto il successo prendendo in giro le interviste.

Da quando sei famoso ti capita più spesso di dover rispondere a domande idiote come quelle su cui ironizzi nei tuoi sketch, o domande “simpatiche” che cercano complicità scimmiottando il tuo umorismo?

“Più che altro adesso devo rispondere a domande, mentre fino a poco tempo fa non dovevo rispondere a nessuna intervista perché nessuno mi chiedeva niente. Ora che vengo riconosciuto, sì, c’è un misto di domande simpatiche e domande ovvie. Ma sono entrambe lecite”.

Il paradosso è che non ripeti mai due volte la stessa battuta, ma hai involontariamente creato decine di tormentoni. C’è persino un gruppo facebook in cui i frammenti dei tuoi sketch sono diventati slogan. Ma confesso che anche io, in famiglia, ripeto in continuazione “Così-così. Esatto”, “Sbadabum” o “Va bìne va bìne”…

“Non sono mai stato un amante dei tormentoni, anche se sono stati usati da comici che ho amato moltissimo. Ma è una formula che serviva in passato per rimanere nella memoria, rendendosi identificabili con una frase: ricordiamo ‘la seconda che hai detto’ di Guzzanti, ‘mii non ci posso credere’ di Aldo della gang Aldo, Giovanni e Giacomo e innumerevoli altri esempi. Mi rendo conto che sembra una risposta pre-impostata, perché la sto dicendo abbastanza dritta. Di solito arranco, però questa è una domanda che mi ero già fatto”.

Internet ha cambiato la funzione del tormentone?

“Sì, oggi serve piuttosto a far fronte a un bisogno di condivisione, per cui se Mario Rossi (quello che mette la firma sull’8 per mille, ndr) dice anche una volta sola “topo” ci pensano poi gli altri a ripetere “topo”, fino a farlo diventare un tormentone. Basi pensare al caso di Lillo, che nel programma “Lol” ha detto una frase che sembra essere diventata connotativa del suo personaggio, anche se l’ha detta una sola volta”.

L’aspetto più assurdo del tormentone, è che si tratta sempre di una frase molto stupida. C’è una puntata dei ‘Simpson’ dove Bart diventa famoso dicendo “non sono stato io”.

“È la puntata a cui penso di più negli ultimi mesi, quando mi trovo a fare cose che sono decisamente troppo per me”.

Come cantare a Sanremo?

“Soffro la sindrome dell’impostore. Perché mi disegnano su Topolino o mi citano nella hit estiva? Mi sento come Bart, che per qualche sequenza di eventi si trova suo malgrado a diventare un personaggio”.

Eppure tu non nasci certo all’improvviso con la “Pezza”. Hai alle spalle una lunga gavetta come musicista e come autore.

“Sì, ho fatto l’autore per cose mie, poi ho lavorato per programmi di Nino Frassica e di Lillo e Greg, come 610, che va avanti ormai da più di quindici anni. Mi è capitato anche un paio di volte di fare l’autore per programmi che non erano nelle mie corde, ma mi sono divertito anche di più”.

Cioè?

“Compilare, scrivere tracce per dei conduttori, fare l’autore per qualcosa di cui sinceramente ti importa poco - senza rovinarla sia chiaro - è comunque più facile, perché non devi preoccuparti del fatto che non sia abbastanza brillante. E anche se è un lavoro compilativo è comunque un lavoro: anche quello è stato divertente, oltre che in qualche modo remunerativo”.

Una pezza di Lundini viene considerata dai fan una sorta di seguito di Boris.

“Ah, davvero? Questo non lo sapevo”

Perché non segui il “Gruppo facebook in cui facciamo finta di essere in Una pezza di Lundini”.

“Non lo seguo, però so che esiste. Non lo seguo perché sarebbe un po’ strano, no?”

Strano è una parola che dici tu. E Alessandro Gori, Carmelo e Olimpio dei Vazzanikki ci sono.

“Davvero?”

Insomma viene dato per scontato un legame. E non è strano, perché in fondo la Pezza ha fatto con i programmi di intrattenimento esattamente quello che Boris ha fatto con la fiction: satira meta-televisiva.

“Mi fa piacere, perché mi vanto di essere un fan di Boris dalla primissima ora, quando ancora non era un cult”.

Non a caso alla Pezza hai avuto ospiti diversi attori di Boris.

“Sì, sono venuti Paolo Calabresi e Caterina Guzzanti. E spero di non dimenticare nessuno”.

C’è un immaginario comune dei due programmi?

“Sicuramente la radice capitolina. Boris era molto romano centrico e non gliene faccio una colpa anche se con Emanuela Fanelli abbiamo parodizzato parecchio l’eccessiva romano-centricità del cinema. Boris non poteva non esserlo, perché parlava di gente che fa cinema, e non potevi certo ambientarlo a La Spezia. Ma c’era un modo di scrivere e recitare molto sincero, e soprattutto il tentativo di far ridere non con delle battute ma con delle situazioni”.

E poi c’è questa critica al proprio stesso mondo. La satira televisiva sulla televisione non è così usuale: la faceva Raimondo Vianello negli anni ’60, ma poi non si è più vista. Al massimo si è vista la parodia, che è tutta un’altra cosa.

“Più che riprodurre situazioni che avevo visto in televisione, nella Pezza ho immaginato in un salotto televisivo situazioni di disagio che possono accadere nella vita quotidiana. Potrebbe essere la satira della tv ma anche del campeggio”

Come il famoso “va bìne va bìne” con Pilar Fogliati.

“Sì, spesso concludiamo, anche le telefonate, dicendo ‘va bene va bene’…”

Succede quando non sappiamo più che cosa dire, e in effetti a volte lo facciamo – non si sa perché - con quella “e” stretta, un po’ nordica…

“Da lì ho immaginato una situazione surreale, in cui alla fine entra in scena un nano che io inseguo con una mazza per lo studio…”

In cinquanta puntate sei passato dalla parodia del conduttore che non riesce a gestire la situazione al surrealismo puro alla David Lynch. Le ultime puntate quasi non sono più comiche: più che Boris ricordano i film di Bunuel.

“Non so se la Pezza si rifarà, ma di sicuro se è un sì lavoreremo per farla nuova e bene, se è un no penseremo a qualcosa di completamente diverso. Il rischio è quello di ricopiare quello che si è fatto prima. Temo francamente di averlo sfiorato questo rischio, e se ci fossero state altre dieci puntate ci saremmo caduti sicuramente”.

Nell’ultima puntata l’hai anche detto: “Abbiamo finito le idee”.

“L’avrei voluto dire anche due puntate prima. C’era il rischio fortissimo che, per evitare di copiare qualcosa di già fatto, ci inventassimo qualcosa di troppo, che finisce per non essere né carne né pesce. Insomma la puntata in cui poi la gente commenta: ‘Ecco, qui voleva fare la cosa nuova e allora si è vestito da papero’”.

È quasi eroico il modo in cui ti sei sforzato di non ripetere non solo gli stessi sketch, ma nemmeno gli stessi meccanismi comici. Ogni intervista ha preso una strada completamente diversa da tutte le altre. E sono pochissimi i comici che hai invitato: Lillo e Greg, Maccio Capatonda, Fabio Rovazzi e Nino Frassica.

“Quelle per me sono state le interviste più riposanti”.

Nelle altre, anziché essere tu la spalla del comico, erano gli ospiti a farti da spalla. Ma quanto erano consapevoli di quello che stava succedendo?

“Anche grazie a Giovanni Benincasa, che è il capo progetto, siamo riusciti a far capire agli ospiti come dovevano recitare, cosa che spesso non viene fatta. Il rischio era sempre trovare l’effetto simpatia, il sopracciglio inarcato, invece siamo riusciti ad evitarlo”.

Molti, come me, hanno conosciuto la Pezza grazie alle clip su youtube, e solo successivamente l’hanno vista in televisione.

“Il fatto che gli sketch siano diventati virali è stato il problema, o se vogliamo una croce e delizia: se fosse stato un programma solo televisivo all’undicesima puntata avrei potuto riproporre qualcosa di simile a uno sketch già fatto, invece in questo modo anche le dinamiche dovevano essere sempre diverse. Considera che alcune cose che ho fatto in tv poi le facevo anche dal vivo ma ora, essendo finiti su internet anche frammenti di vecchi programmi, le ho dovute togliere dagli spettacoli”.

Totò si è potuto permettere di fare gli stessi sketch per quarant’anni, perché la gente lo vedeva in teatro. La televisione ha già reso più difficile la vita ai comici, bruciandoli in pochi anni. Il web ha stroncato definitivamente la possibilità di ripetersi?

“Sì, infatti ho assoldato dei cecchini per chi fa i video allo spettacolo, perché se anche di questo iniziano a girare le clip è finita. Almeno so che la gente che stasera è a Terni non è la stessa che era a Iesolo ieri e che sarà domani a Francavilla”.

A proposito di Terni, dove vieni – hai detto – “a giorni a(l)Terni”. L’hai vista oggi per la prima volta o esiste un rapporto con questa città?

“Sinceramente è la prima volta. Però finora il bilancio è positivo: il teatro è molto bello, l’albergo, le saponette, gli asciugamani morbidi. L’unico problema è il pane, che è un po’ sciapo. Ma si risolve mettendoci un po’ di sale”.

E ci siamo capiti.

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